Herman Melville morì a New York il 28 settembre del 1891, centotrenta anni fa. Riposa, insieme alla moglie Elisabeth, nel Woodlawn Cemetery, Bronx, non distante dagli oscuri faccendieri e dai criminali più noti, mischiato in mezzo a loro come un giglio nella gramigna. La tomba dello scrittore capace di segnare per sempre la percezione poetica del mondo moderno ha la forma di una pergamena e molti visitatori amano depositare nei suoi pressi qualche vecchia conchiglia.

Anch’io una volta lasciai sotto al monumento funebre un sasso colorato in memoria della mia prima lettura di Moby Dick. Da bambino avevo accostato il capolavoro della letteratura americana grazie a una versione ridotta per l’infanzia. Solo più tardi lo affrontai davvero nella traduzione di Cesare Pavese e mi resi conto della sua vastità quasi incontrollabile. Andando a rendere omaggio al sepolcro di Melville, mi sentivo così trasognato che dalla fermata della metropolitana, sotto il ponte di ferro, in mezzo ai fiorai messicani, fino al cancello d’entrata della grande necropoli urbana, provai la sensazione di camminare sul fondale delle streghe dove Ismaele riuscì, in un modo o nell’altro, recuperato dalla “Rachele” bordeggiante alla ricerca dei figli perduti, a salvare la pelle.

Quel romanzo lo conoscono in tanti, anche se leggerlo sul serio in ogni sua parte continua a rappresentare un’ardua impresa, ma pochi appassionati stringono nel loro cuore l’ultima opera di Melville, forse una scheggia di Billy Budd, secondo la suggestiva ipotesi di Eugenio Montale. Due o tre pagine preziose come l’oro intitolate Daniel Orme, comprese nella raccolta postuma del 1924, disponibili oggi anche in Rete, attraverso le quali l’autore ci consegnò da una parte un singolare autoritratto, dall’altra la propria resa di fronte all’apparente incomprensibilità del mondo. Dopo aver raccolto, grazie all’indimenticabile Achab, con insuperabile grazia ed estremo discernimento, i trucioli biblici della tracotanza e della misericordia, sparsi come folletti nella sua coscienza al tempo stesso lucida e stravolta, volle congedarsi dalla tragica recita a cui tutti siamo destinati formulando in quel racconto una richiesta radicale priva di risposta. Cosa resta dell’esperienza di un uomo? In quale modo possiamo utilizzare nell’esistenza quotidiana ciò che sappiamo o crediamo di sapere? Fino a che punto siamo responsabili degli errori che commettiamo?

Lasciamo oscillare tali domande, alla maniera di un pendolo, sul tavolo verde dove ci giochiamo tutto: sì, no, carta vince, carta perde. Il marinaio, trascorso capitano di coffa, solerte quanto basta per meritarsi il rispetto degli ufficiali, aveva conosciuto, avanti negli anni, i gradi inferiori, ai piedi dell’albero maestro, finché, ormai settuagenario, s’era trovato un ormeggio in terraferma. Dall’alto degli ordini da impartire ebbe l’impressione di precipitare nella sentina dei lavori più umili, sporcandosi le mani senza rimostranza alcuna. Chi può dire di non aver fatto altrettanto? Soltanto pochissimi potrebbero sostenere di essere passati indenni nel cerchio di fuoco dei doveri professionali e non penso che siano i più felici. Con ogni probabilità nella leggenda giovanile di quel carismatico masnadiero, avvolta nelle tenebre, restavano incise a solchi indelebili certe occasioni speciali da lui vissute come bucaniere di Key West, al largo della Florida: presumibili colpi di mano, sotterfugi, magie, tranelli.

Erano avventure ormai lontane: astrusi fantasmi scomparsi da tempo che forse, paradossalmente, tornavano a brillare soltanto nei momenti di maggiore inquietudine di fronte all’oltraggio dei principi di giustizia in cui, magari allo scopo di darsi un contegno, il celebre filibustiere s’era deciso a credere. Billy Budd, condannato innocente, aveva incarnato tale stortura. Allora, nell’indignazione di Daniel Orme, che sarebbe potuta scattare in ogni istante al cospetto della faciloneria e della disattenzione, il pirata diventava un maestro e tutto pareva acquisire un senso. Sempre che non fosse stata l’ennesima illusione. Da anni l’antico paladino, prescelto dalla sorte bislacca, usava occupare le sue ore oziose e sonnolente prendendo il sole accasciato vicino alla darsena, accanto ai pennoni delle bandiere sul lungomare, fra barboni e derelitti. Non erano pochi a spiarlo con la segreta volontà di ricavare qualche spunto utile a non lasciarsi sprofondare nella depressione. Ed ecco ciò che, malgrado la condotta estremamente riservata, lasciò filtrare questo vecchio eroe al termine dei suoi giorni.

Gli capitava spesso di chinare il capo sul petto per contemplare qualcosa che nessuno riusciva a decifrare ma tutti avrebbero voluto vedere. I vagabondi che lo attorniavano, tenendosi a debita distanza, curiosi come scimmie ma troppo timidi per chiederglielo, a un certo punto presero coraggio e mandarono avanti un rigattiere il quale, dopo aver addormentato il capitano con un sonnifero versato di nascosto nella sua tazza di tè, gli aprì la maglia di lana Guernsey e scoprì un crocifisso indaco e vermiglio tatuato all’altezza del cuore, attraversato da una lunga cicatrice sottile e biancastra che poteva essere la conseguenza di un fendente di sciabola non del tutto evitato o parato. E adesso pensate pure ciò che volete, pareva dicesse l’uomo ronfando.

Lo scrittore lo descrive come un gigante decaduto, trovato morto il giorno di Pasqua su una terrazza davanti al mare, appoggiato a una batteria antiquata di vecchi cannoni, la pipa di gesso rotta in due pezzi, il fornello vuoto, gli occhi spalancati rivolti verso l’oceano. Tutto chiuso nei suoi pensieri, in una reticenza impenetrabile, tra la foschia della memoria e la bellezza del panorama. La prosa interna di Melville assomiglia al gheriglio dentro la noce. «È sepolto fra altri marinai», citiamo dalla versione di Massimo Bacigalupo, «anche per i quali degli sconosciuti compirono gli ultimi riti, in un pezzo di terra solitario coperto di rosa canina selvatica e trascurato dall’uomo».