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Delitto di Cogne, Annamaria Franzoni e l’accertamento psichiatrico: l’ingresso del processo mediatico in quello penale
Il processo per l’omicidio di Samuele Lorenzi ha registrato diverse peculiarità tra cui l’approfondimento psichiatrico sulla madre, ritenutane la responsabile. Tutti ricorderanno l’attenzione mediatica che è stata dedicata a questa vicenda. Attenzione che potrebbe apparire del tutto ininfluente dal punto di vista dello “stretto diritto”. Sbagliato. Ed in effetti la bulimica presenza dei media è entrata prepotentemente a far parte delle argomentazioni di condanna attraverso un vettore deputato a tutt’altro: la perizia psichiatrica disposta nel giudizio d’appello.
L’accertamento
La scelta di Annamaria Franzoni è stata quella di non sottoporsi a detto accertamento. “Sei minuti per leggere come un proclama il suo passo d’addio al processo” fu scritto su un quotidiano torinese. “Signor Presidente, signori della Corte, non ho ucciso mio figlio ed altri lo hanno fatto….invoco Dio affinché illumini le vostre coscienze…voglio continuare a guardare in faccia i miei figli perché da soli colgano l’innocenza della loro mamma, anche se malauguratamente ciò dovesse accadere dalle grate di un carcere, dove preferisco trascorrere da innocente quanto mi resta da vivere, piuttosto che accettare il compromesso di una vita libera ma ossessionata dall’idea che chiunque, ma soprattutto i miei figli, possano ritenermi autrice di un assassinio…Non è nella mia mente che troverete il colpevole”.
Le conseguenze
Le conseguenze della sua libera volontà sono ricadute sia sulla scelta dei periti, sia sul metodo utilizzato. Ed infatti è stato scelto un collegio peritale composto da un solo psichiatra, affiancato da due psicologi e da un professore di criminologia, difesa sociale e medicina legale. Quanto poi al metodo, l’indagine degli esperti si è spinta nel campo della criminogenesi e criminodinamica del fatto di reato, ambiti che non possono prescindere dalla confessione del delitto, o dal preciso e chiaro accertamento della responsabilità del suo autore. La nomina di tre periti con una spiccata preparazione in ambito psicologico, unita ai contenuti del quesito posto agli esperti, hanno evidenziato sin da subito la necessità della Corte di rinvenire nuovi elementi di responsabilità ed altri idonei ad individuare il movente omicidiario.
Il metodo
Così è stato, utilizzando molti passaggi della perizia che hanno esondato nel terreno del carattere e della personalità dell’imputata, con buona pace del divieto di perizia psicologica. Sempre riguardo al metodo, essendo divenuto impossibile svolgere l’esame diretto dell’imputata a causa del suo rifiuto, i periti hanno utilizzato, oltre al resto, intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonché filmati e “fuori onda” delle apparizioni televisive della donna in diverse trasmissioni televisive. Si è, in altre parole, passati attraverso l’analisi del funzionamento mentale dell’imputata per dare profondità e tridimensionalità ad una vicenda straordinariamente drammatica e tale da “spaccare” l’opinione pubblica tanto da determinare, come detto in apertura, l’ingresso del processo mediatico nel processo vero e proprio.
La perizia
Questa “puntata” del “processo di Cogne” porta inevitabilmente a due riflessioni di grande attualità. Non è vero che la perizia psichiatrica disposta nel processo penale sia la via per ottenere l’impunità. E’, e deve rimanere, uno strumento nelle mani del giudice per comprendere se un determinato accadimento, seppur cruento, abbia origine da una patologia che escluda per il suo responsabile la meritevolezza della carcerazione, in tutto o in parte. Se non si accetta questo principio il rischio è di confondersi nella mischia di coloro che richiedono a gran voce di “gettar via la chiave” sempre e comunque secondo il meccanismo del post hoc, propter hoc. La seconda riflessione cade sull’interesse mediatico che suscitano i gravi fatti di cronaca. Nella sentenza che ha condannato, in via definitiva, Annamaria Franzoni si legge: “l’interesse mediatico, spontaneo o scientemente indotto, non si è mai risolto in un decremento delle facoltà difensive dell’imputata ma, piuttosto, nel suo contrario, ampliandone gli spazi di garanzia e favorendo in massimo grado, per l’esaustività delle indagini espletate, la formazione e maturazione del convincimento dei giudicanti”. Ebbene, sedici anni dopo la conclusione di questa vicenda giudiziaria, rileggendo questo passo delle motivazioni dei giudici di legittimità, che -a dir la verità- non ricordavo, rimango fermamente convinta che abbiano preso un grande abbaglio. Mai e poi mai gli stravolgimenti mediatici possono aver ampliato – o potranno in futuro ampliare – le garanzie dell’imputato, a maggior ragione quando influiscano sul giudizio sulla sua personalità, che, tranne poche eccezioni e come si è detto, è vietato dalla legge.
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