Nel “Si&No” del Riformista spazio alle parole di Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale, da mesi a capo del Comitato algoritmi, un gruppo di lavoro di esperti giuristi e professori universitari istituito presso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria col compito di studiare l’impatto dell’intelligenza artificiale nel settore dell’informazione e dell’editoria. In una intervista a Repubblica Amato ha sollevato dubbi sulla tenuta della democrazia in Italia. Favorevole il senatore del Pd Alfredo Bazoli secondo cui “bisogna tenere la guardia alta sulla tenuta delle istituzioni“. Contrario invece lo scrittore Andrea Venanzoni che ribatte: “Amato se ritiene che Meloni e Salvini siano così pericolosi, lasci quella poltrona“.

Qui il commento di Venanzoni:

Nell’analisi, dai contorni di autentico allarme, offerta da Giuliano Amato sul pericolo di una involuzione autoritaria dell’Italia e del suo sistema istituzionale c’è un primo particolare che incuriosisce assai e che potremmo definire ‘topografico’. Ovvero, da dove questo grido di dolore sulla potenziale involuzione da ‘democratura’ del Paese viene lanciato: la poltrona più alta di un comitato governativo di studio e di analisi su algoritmi, editoria e digitale, dove su input del sottosegretario all’editoria, il forzista Alberto Barachini, Giuliano Amato è stato fatto sedere.

Una tradizione italica, quella di lanciare preoccupazioni sull’autoritarismo di ritorno pur occupando ruoli di potere. Un po’ come quelli che lamentano ogni giorno da giornali, televisioni, salottini e cattedre universitarie la censura e il fatto di non poter parlare.
Ed è assai bizzarro sedere su uno scranno messo a disposizione da politici che non hanno, come dice Amato a Repubblica con sicurezza ed enfasi, la cultura politica di Reagan o della Thatcher ma che vengono dalla ‘ideologia dell’ostilità e
del rancore’, testuale, e rimanere là seduti, mentre la brechtiana parte del torto si situa ad una latitudine distante, ben fuori dal perimetro di questa (in)cultura così tanto pericolosa per il Paese.
E Brecht lo cito a ragion veduta, perché Amato non si lancia soltanto in una disamina di potenziali riforme istituzionali ma propone una critica, quasi antropologica e metafisica, del sentire profondo della destra di governo a guida Gorgia Meloni, leggendo in essa un magnete capace di “raccogliere scontentezze di varia natura: i perdenti di una battaglia lontana, i nostalgici di un fascismo che
non c’è più, e i perdenti di oggi, quell’enorme prateria del rancore alimentato dal
disagio economico e sociale, oltre che dall’insofferenza per i nuovi diritti”.

Le praterie del rancore, come in un buon romanzo di McCarthy, sono solcate, more solito, da quegli istinti deteriori che a una certa sinistra per troppo tempo incistata nei gangli nodali e vitali del sistema italiano ripugnano.
Anche nel lessico scelto, c’è una schmittiana propensione alla rottura, alla frattura quasi insanabile, con le Corti che secondo Amato la destra italiana e quelle di Ungheria e Polonia vedrebbero come ‘nemiche’, insofferenti le destre allo stato di
diritto e al vaglio di organi terzi.
In realtà, a monte, Amato dovrebbe considerare che in Polonia lo schieramento da ‘democratura’ ha perso e ora al governo siede una coalizione europeista, segno evidente che persino quel sistema indicato come simbolo di patologizzazione dello
Stato liberal-democratico non era poi messo così male. Anzi, ha reagito e oggi al governo siede una maggioranza di segno opposto.

Non si capisce quindi come e perché l’Italia dovrebbe patire una involuzione autoritaria, se perfino la Polonia ha dimostrato di non essere virata in maniera insanabile verso i lidi della ‘democratura’. I toni forti che punteggiano il colloquio tra Amato e Repubblica, lontani da una critica comunque ricadente in un alveo dialogante, arrivano fino al punto di
definire l’ipotesi di ‘premierato’ una sorta di frode nei confronti dell’elettorato. Una parola, come detto, forte assai, e se certo le paventate riforme costituzionali sono criticabili e sottoponibili a valutazione, tanto accademica quanto dell’opinione pubblica, scegliere un lessico tanto manicheo non aiuta a focalizzare l’attenzione su punti forti e deboli della riforma citata.
Sul fatto poi che non vi siano costituzionalisti favorevoli o aperturisti alla riforma, mi sembra dichiarazione tranchant e non del tutto corrispondente al vero; Sabino Cassese, Francesco Saverio Marini, Giovanni Guzzetta, pur con diversità di accenti e sfumature, di certo hanno dimostrato apertura alla riforma. Nessuno di loro ha paventato foschi scenari distopici o di involuzioni autoritarie.
Ma se davvero Amato ritiene che Giorgia Meloni e Matteo Salvini siano così pericolosi, cessi la sua collaborazione istituzionale e lasci quella poltrona.