Diciassette anni fa, nella notte tra il 19 e 20 marzo 2003, una coalizione guidata dagli Stati Unti di George W. Bush e dal Regno Unito di Tony Blair sferrò un attacco militare contro l’Iraq con l’obiettivo dichiarato di impedire al dittatore iracheno Saddam Hussein, al potere dal 1979, di sviluppare e utilizzare armi di distruzione di massa. Fu la notte della democrazia. Una notte ancor più buia di quella rivelata dai Pentagon Papers grazie a Daniel Ellsberg, al New York Times e al Washington Post perché, oltre ad ingannare il popolo americano, nel 2003 fu anche intrapreso uno scellerato tentativo di ingannare l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Tristemente indimenticabile fu la presentazione del 5 febbraio 2003 dell’allora Segretario di Stato statunitense, Colin Powell, delle presunte prove schiaccianti contro Saddam Hussein. Presentazione che Powell stesso ha definito, alcuni anni dopo, “la macchia della mia carriera”.

La campagna di persuasione, o meglio di “bullismo di Stato”, avviata dall’amministrazione Bush già nel 2002 presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per convincere la maggioranza degli Stati Membri a sostenere una risoluzione che desse la luce verde all’attacco fu imponente e poté contare sul sostegno diplomatico, politico e militare promesso personalmente dall’allora Primo Ministro Blair al Presidente Bush, senza informare né consultare il Parlamento di Westminster. Altrettanto imponente, ma non mortale, fu il danno recato alla democrazia: dibattiti parlamentari farciti di menzogne, scontri laceranti e dolorose defezioni negli esecutivi, parlamentari e opinioni pubbliche ignorate e ingannate, servizi segreti sfacciatamente e goffamente politicizzati, organi di stampa conniventi o timorosi nella migliore delle ipotesi.

Politici, giuristi, accademici, analisti impegnati per mesi a discernere se, secondo il diritto internazionale, l’azione militare fosse legittima o meno. Il tam-tam dei governi di Washington e Londra martellava sulla necessità di neutralizzare militarmente Saddam Hussein con un attacco preventivo per legittima difesa perché Baghdad avrebbe potuto lanciare missili in grado di colpire Londra in 45 minuti. Tutto falso. Nessuna “pistola fumante”. Né gli ispettori ONU prima dell’attacco militare, né i soldati ad attacco sferrato, trovarono tracce di armi di distruzione di massa. Così come non furono mai provati i legami tra Saddam Hussein e Al Qaeda, altra argomentazione addotta dai menzogneri leader del mondo libero come ulteriore prova della gigantesca minaccia che l’Iraq rappresentava a livello globale. Il disastro iracheno è sotto gli occhi di tutti. Il progetto di rimuovere un despota e di “esportare la democrazia” ci ha consegnato migliaia di morti e un caos nella regione che ha spostato l’equilibrio di potere a favore proprio del più acerrimo avversario degli Stati Uniti, l’Iran.

Oggi, di fronte ad una vera minaccia globale, in piena emergenza sanitaria, vi è un dibattito su quale sia il modello da attuare per sconfiggere il Covid-19. Spiccano, in particolare, quello draconiano cinese e quello democratico sudcoreano. Alcuni sostengono che la democrazia non sia all’altezza di una crisi così grave, dimenticando forse che la forza della democrazia è quella di saper apprendere dai propri errori. Ad una condizione: che i cittadini siano messi in grado di ricercare la conoscenza. L’emergenza coronavirus giunge in una congiuntura che vede al centro dell’attenzione l’avvento dell’intelligenza artificiale, l’uso opaco degli algoritmi e la perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche. Tutto imprime un’accelerazione ad adattare soluzioni emergenziali in cui si fatica sempre più a cogliere l’equilibrio tra libertà e sicurezza, diritti e doveri.

Nell’ottobre 2019, il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per l’estrema povertà e i diritti umani, l’australiano Philip Alston, ha presentato il suo ultimo Rapporto sul welfare digitale in cui scrive che i governi devono evitare di “incamminarsi a passo di zombie verso un distopico welfare digitale” e mettendoci in guardia dalla possibilità che “una manciata di esecutivi possa sostituirsi ai governi e ai legislatori nel determinare in che direzione deve andare la società”.

Per quanto lenti e disordinati, i meccanismi democratici permettono un’evoluzione sociale sicura per un numero maggiore di persone. Al contrario delle dittature, non possono celare un misfatto a lungo. In democrazia gli errori vengono esposti per poter apprendere. È ciò che è ha tentato di fare, per esempio, l’Inchiesta Chilcot che, a distanza di molti anni, nel 2016, ha fatto luce sul fallace processo decisionale britannico rispetto al coinvolgimento di Londra nel conflitto iracheno e assegnato responsabilità politiche precise dalle quali è oggi possibile trarre una lezione. Quella tratta dal Partito Radicale, che in quegli anni fu attivissimo con Marco Pannella nel tentativo di scongiurare la guerra in Iraq, è un’iniziativa per dare ai cittadini di tutto il mondo un nuovo diritto umano, il diritto alla conoscenza. Si tratta di consentire ai cittadini di conoscere perché e come vengono prese determinate decisioni da parte dei governi ad ogni livello. Questo significa tornare al ruolo chiave dei parlamenti, dei parlamentari e dei dibattiti parlamentari, che nessuna tecnologia potrà sostituire.

Solo piegando la curva della disinformazione, sarà possibile piegare la curva dell’epidemia del coronavirus e di tutti i virus che minacciano la nostra salute, i nostri diritti, i nostri sogni. È il momento di rinunciare ad alcune libertà. Non è mai il momento di rinunciare a coltivare quella sana consapevolezza civile che permette ad ogni comunità di crescere nella libertà responsabile. Facciamo attenzione, altrimenti correremo il rischio che, come scrive Alston, “i cittadini diventino sempre più visibili agli occhi dei governi, ma non il contrario”.