La strada per via della Frana, via del Diluvio, via Affogalasino, via delle Idrovore; o per raggiungere località Pantano, Bagnolo, Marana, Stagno, Fontanelle, Padule, Fiumara, Canale, Fossato, Rotta, Foce, Isola Persa, Catino, Fossa, Mortizza, Gora, Slavina, Rovina, Smotta, Infernetto, Punta Maledetta, Punta Malafede, Bagno, Bagnoletto, Settebagni? Basta attivare il navigatore, e seguire le indicazioni di Google Maps, ed eccoci nell’Italia che esibisce in modo spregiudicato la toponomastica con almeno 11.000 nodi di rischio alluvione o frana. Un tempo erano acquitrini, paludi, isole fluviali, aree alluvionali, verdi versanti collinari e montuosi, arenili sabbiosi. Oggi sono parti di città, interi paesi, zone industriali, artigianali, commerciali, turistiche. Urbanizzate perlopiù nella deregulation urbanistica galoppante che ha fatto accatastare, dagli anni Sessanta del Novecento, tanta edilizia anche abusiva poi condonata da 4 sanatorie, un caso unico al mondo. La follia di costruire senza pensare dove e senza pensare alle misure di sicurezza, e spesso nemmeno a reti idriche e fognarie, ha lasciato pezzi d’Italia dove ormai precipitazioni eccezionali provocano diluvi, con lutti e tanti danni.

Alla natura con i suoi rischi moltiplicati dal clima cambiato, abbiamo aggiunto tante costruzioni contronatura, fin troppo temerarie, che ci ha fatto balzare in nemmeno 60 anni dal 3,8% di territorio edificato nel 1956 all’8,5% di oggi, spesso senza l’ombra del parere di un geologo o contro i loro pareri, senza piani regolatori o calpestando leggi e regolamenti. Ma soprattutto ci siamo piazzati sopra un mare di acque correnti, impermeabilizzando pericolosi reticoli idraulici e aree golenali, intombando corsi d’acqua per circa 20.000 km sotto le città in tunnel con sezioni ridicole, come ci ricorda l’ultima piena del Seveso a Milano della scorsa settimana causata certo dal torrente, che negli ultimi 140 anni l’ha allagata in media 2 volte e mezzo l’anno, ma soprattutto dal clamoroso ritardo delle opere di contenimento delle sue piene.

Non serve uno Scherlok Holmes per capire che ci siamo cacciati in tante trappole a tempo. Eppure continuiamo a stendere cemento ogni anno come se nulla fosse, sopra superfici vergini alla velocità media di 70 ettari al giorno, non contenti di aver già urbanizzato 34.000 vietatissimi ettari all’interno di aree protette, il 9% delle zone a pericolosità idraulica, il 5% delle rive di fiumi e laghi, il 2% di aree montane a pendenza elevata, zone umide e oltre 500 km di arenili sabbiosi. Basta leggere l’ultimo rapporto dell’Ispra che conta 7.423 comuni, il 93,9% del totale, con aree al loro interno a rischio idrogeologico, con 1,3 milioni di abitanti a rischio frane e 6,8 milioni a rischio di alluvioni. Nella foto di gruppo rientrano anche 1,2 milioni di edifici, alcune decine di migliaia di industrie, un patrimonio naturale, e storico culturale inestimabile.

E sul 31% del territorio che doveva essere vincolato troviamo invece il 56% delle aree industriali che fanno il Pil nazionale, e nel 20% da lasciare vergine ci sono invece periferie urbane con 6.251 scuole e 547 ospedali, e nel 26% che doveva essere libero da costruzioni troviamo aree sportive e turistiche con palestre, alberghi e centri commerciali. Si è costruito abusivamente o legalmente, ma alla fine con la stessa incoscienza e gli stessi risultati, senza pensare alle difese idrauliche. Il numero di frane mostra l’altra faccia della medaglia del rischio idrogeologico, con la cifra record di 628.000, il 90% circa delle 750.000 frane mappate in tutta Europa, con 2.940 frane attive monitorate dalla Protezione Civile, e con l’indice di franosità più elevato in Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, Valle d’Aosta, Piemonte, Campania, Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia. L’impatto di questo altro accumulo di pericoli è evidente anche sulle infrastrutture viarie e di trasporto.

Sui 7016,4 km di rete autostradale sono identificati circa 700 punti critici, sulla rete ferroviaria lunga 16.723 km sono circa 1.800, ovviamente sotto controllo e oggetto di interventi, e sulla rete stradale lunga 167.565 km e soprattutto sui 132.000 km di strade provinciali gli smottamenti sono cronaca quotidiana. E poi c’è la nostra anima, l’identità culturale che finisce nel fango. Sono esposti al rischio di una alluvione grave 12.496 tra musei, biblioteche e siti archeologici, altri 28.483 sono a rischio medio e 39.025 a bassa pericolosità, calcola l’Ispra. Un brivido lungo la schiena degli storici dell’arte e degli archeologi e di tanti italiani. E oggi è Villa Montalvo, a due passi da Campi Bisenzio, che ha dovuto assistere alla perdita di 50mila libri portati via dalla piena, trascinati e incastrati tra rami di alberi, auto e vari rifiuti.

Non basterebbe questo catalogo a far partire un grande piano di prevenzione? Non sono bastate, nell’ultimo secolo, circa 29.000 alluvioni e circa 11.000 frane che hanno colpito 14.000 luoghi, lasciando oltre 6000 morti? E i danni ad una media di oltre 4 miliardi di euro all’anno dal 1946 al 2021, che galoppano dal 2022 verso il raddoppio? Non basterebbero le ultime 4 devastanti alluvioni del nuovo clima – le Marche il 16 settembre 2022, Ischia il 26 novembre 2022, la Romagna dal 1maggio 2023, e dal 2 novembre la Toscana – a far inserire il problema tra le priorità assolute dell’agenda del governo? Queste quattro pazzesche alluvioni indicano che tutto è cambiato, e non sono più accettabili ritardi nella difesa di troppi territori indifesi o con difese immaginate per altre epoche e altre fasi climatiche. Siamo fin troppo vulnerabili lungo le fasce costiere, nelle aree centrali, sulle ampie pianure, sulle isole come Sicilia dove la Protezione Civile elenca 7.178 “nodi a rischio” e sono fiumare e torrenti portati a sfociare su strade, aree urbane, parcheggi.

Possiamo e dobbiamo difenderci. Stare fermi è il disastro. Il MOSE insegna, come le tante lezioni positive con i lavori in corso o conclusi a Genova per il Bisagno e il Fereggiano o lungo l’Arno a Firenze o in Veneto. Il pronto soccorso è possibile. Siamo in grado di intervenire e quantomeno di ridurre i danni con opere e interventi di varia tipologia: briglie, argini, vasche di laminazione, risagomatura di canali, stombamenti e allargamenti di sezioni di corsi d’acqua intombati, idrovore, consolidamento di versanti in frana, tante manutenzioni straordinarie e ordinarie. E bisogna avere anche il coraggio delle dolorose delocalizzazioni, spingendo noi cittadini ad una maggiore conoscenza dei fenomeni naturali e coscienza dei rischi e la ricerca scientifica affinché riesca a intercettare in tempo utile anche le nuove tipologie di temporali cosiddetti “autorigeneranti”. Andrebbero ripensate le città con i nuovi parametri climatici per la nuova urbanistica dell’acqua. Partendo da Roma, oggi l’area metropolitana più a rischio di alluvioni tra le grandi città europee.

Il Tevere e l’Aniene fanno segnare in rosso 1.135 ettari di area urbana dove vivono e lavorano circa 300 mila persone, dal nodo di Ponte Milvio alla foce del Tevere a Ostia urbanizzata in maniera intensiva, e al 90% abusiva. Sono scomparsi in 30 anni di mancate manutenzioni o sotto cemento e asfalto almeno 700 km di reticolo idraulico romano utili allo scolo dell’acqua di pioggia che dovrebbero essere ripristinati immediatamente. E Roma ha urgente bisogno di un sistema di casse di espansione a monte tra alto Lazio e Umbria e a valle. Ma cos’altro ancora deve accadere per spingere il governo a far ripartire una Italiasicura operativa e permanente per la difesa idrogeologica? Cosa aspetta? Nell’attesa, forse andrebbe scolpita sulle facciate dei nostri municipi l’ammonimento di Leonardo: “Il fiume che s’ha a piegare da uno in altro luogo deve essere lusingato e non con violenza aspreggiato”.