Cronaca
Disturbi alimentari, sanità a digiuno. L’intervista a Franzoni: “Non è un Paese per giovani, la politica guarda altrove”
Il celebre neuropsichiatra bolognese, fondatore e presidente di Fanep, invita il governo a tornare indietro sui tagli all’assistenza per anoressia e bulimia

Loro non mangiano e il governo, per tutta risposta, taglia gli alimenti alla sanità che li ha in cura. Parliamo di milioni di pazienti con disturbi alimentari raccogliendo il grido di allarme del professor Emilio Franzoni, il neuropsichiatra – Università di Bologna, cattedra al Sant’Orsola – che ha fondato e presiede la Fanep, associazione che lotta contro i disturbi nutrizionali.
Qual è il quadro della situazione dei disturbi alimentari in Italia?
« È un fenomeno di massa. Parliamo di almeno un milione e mezzo di pazienti in cura, ma le stime sono poco attendibili perché c’è molta patologia seguita dalla sanità privata. Si fatica a contarli. La cosa importante è che ci sia stato il riconoscimento del carattere di malattia, sia fisica che di disagio psichico.
Perché all’inizio si è faticato anche a riconoscere la patologia del disordine nutrizionale?
« Sì. Io ho iniziato dal 1993-1994 a parlarne. Nella classe medica non tutti mi hanno creduto, anzi: c’è stato un famoso pediatra secondo il quale mi ero inventato una malattia. Adesso tutti sanno che lo è, e se ci si fosse mossi per tempo forse si sarebbero potuti scongiurare i numeri di oggi ».
Com’è cambiata la composizione dei pazienti?
« Sono sempre di più i ragazzi, che una volta erano l’1% dei malati e oggi sono arrivati al 10%. E scende l’età in cui si è colpiti. Prima era un problema della fascia 14-24, adesso della fascia 10-24. Con il 50% di pazienti che guariscono per sempre, il 25% che ha una o più ricadute nel tempo e purtroppo il 25% cronicizza invece il problema, curandolo con alti e bassi ».
È una patologia per metà psichica e per metà fisica?
« È la patologia del cambiamento, prima di tutto. Si manifesta come reazione, per resistenza o opposizione, a un cambiamento che viene metabolizzato male dai giovani pazienti: un trasloco, il divorzio dei genitori, un trauma a scuola o in famiglia, un abuso o una violenza sessuale. Le cause possono essere tante: al cambiamento i giovani e giovanissimi oppongono il rifiuto del cibo o, in misura minore, la sua assunzione compulsiva ».
Ci sono basi genetiche?
« Sì, c’è una predisposizione. Però l’allargamento dell’esposizione al fenomeno ci parla di sempre più primi casi in famiglie che non ne avevano mai avuti. Un adolescente su cento ne diventa sofferente. E tenga conto che oggi accanto al rifiuto del cibo c’è una comparsa di disturbi psichiatrici, di personalità, di depressione. Sempre più casi di hikikomori, di ragazzi autoreclusi in camera. Il disturbo alimentare non compare più da solo ».
E il governo in tutto questo cosa fa? Taglia i fondi dedicati, riduce da 24 a 10 milioni il bilancio per il contrasto al fenomeno.
« C’era il rischio che non dessero proprio niente, e comunque 10 milioni, visto il contesto in cui ci troviamo a operare, è molto vicino al nulla. Non bastavano 24 milioni, figuriamoci se ne bastano dieci. Se i parlamentari avessero avuto a che fare con malati di anoressia in famiglia forse avrebbero considerato diversamente le dotazioni per la sanità ».
È un dramma enorme per le famiglie colpite…
« Inimmaginabile. Quando c’è una ragazza colpita da anoressia o bulimia, c’è tutta una famiglia malata. Per questo i numeri dei pazienti vanno moltiplicati per tre o per quattro, se vogliamo capire le dimensioni del problema.
Esiste una cura univoca?
«No. Esistono terapie sperimentali che non possiamo ancora protocollare. Il successo è dato dalla collaborazione del paziente, dallo stato della patologia, dal contesto famigliare. Considero il 50% di casi risolti per sempre un buon successo, visto in che condizioni ci troviamo a operare nella sanità pubblica ».
Che soluzione auspica?
« Un cambio di passo culturale. La famiglia va messa al centro, è la prima agenzia di welfare. Quando arriva Natale vedo genitori che fanno regali costosi ai figli, soprattutto tecnologici. Dico invece ai genitori: regalate voi stessi. Un’ora di più del vostro tempo, una passeggiata insieme, una lettura, i compiti fatti insieme. È la prima terapia per stare lontani dal disturbo alimentare ».
Anche perché i telefoni sono sin troppo presenti nelle nostre vite, professore.
« Sì, e lo dico da clinico. Molti milioni di giovani soffrono di un disturbo che inizia a assomigliare all’autismo, con una riduzione importante dello spettro empatico. Il deficit attenzionale è un altro disturbo di massa, molto più diffuso dei disturbi alimentari. Ed è anche questo un disturbo di relazione. Meno ore davanti allo schermo del cellulare e più ore passate a fare sport, o anche a non fare nulla, a chiacchierare di persona con gli amici, restituirebbero una dimensione umana più sana ».
Anoressia, bulimia, hikikomori e deficit attenzionale… l’Italia non è un Paese per giovani, verrebbe da dire.
«Non riguardano solo l’Italia, ma è vero che in Occidente e in Europa c’è l’acme del fenomeno. L’Italia non è un Paese per giovani, no: perché le scelte della politica vanno sempre da un’altra parte. I nostri ragazzi hanno sofferto più di altri, nel mondo, per l’impatto e le conseguenze della pandemia del Covid».
Cosa chiederebbe a Giorgia Meloni, al governo?
«Di ascoltare la voce della comunità medico-sanitaria. Di capire l’entità del problema, un dramma che tocca più generazioni ormai e mina la crescita di milioni di individui, segna già da ora la società del domani. Servono strumenti, strutture, fondi. Per l’associazionismo e il terzo settore, la ricerca scientifica e la pratica ospedaliera, per gli ambulatori, la prevenzione da fare nelle scuole, gli psicologi e gli psichiatri che orami servono, è il caso di dire, come il pane».
© Riproduzione riservata