La valutazione della capacità di intendere e di volere di alcuni imputati di delitti particolarmente efferati è questione sulla quale si è sviluppato un acceso dibattito non solo in ambito forense. Si è scritto e si è detto che “l’incapacità” sarebbe una soluzione di comodo, favorevole all’autore del reato che attraverso tale escamotage – così pensa una parte dell’opinione pubblica – potrebbe andare esente da pena e guadagnarsi la sostanziale impunità. Perché, ormai, il processo è giusto solo quando finisce con una condanna. La volontà della punizione, possibilmente esemplare, rischia di travolgere la necessità di accertamenti accurati e stringenti intorno alle condizioni di mente dell’autore del reato rifuggendo da conclusioni ideologiche.

In questa nostra società complessa dove esponenziale è l’aumento dell’assunzione di psicofarmaci e il disagio psicologico è uno stato che affligge e condiziona tante esistenze, non è possibile, a fronte di comportamenti che appaiono incomprensibili e assolutamente irrazionali, trattare con superficialità la condizione soggettiva di chi delinque.

Se non si può cedere all’assunto di platoniana memoria che nessuno è malvagio di sua volontà, comunque è certo che tanti sono gli stati gravemente patologici in grado di profondamente incidere sulle capacità volitive e di disconnettere il soggetto dalla realtà. Ed allora chiedere che il Giudice si misuri con i risultati dell’accertamento psichiatrico forense non equivale a ridimensionare o giustificare la condotta delittuosa ma serve a collocare il soggetto autore del reato in una dimensione di cura e non meramente punitiva, unica efficace anche sotto il profilo social preventivo.
Non ci possiamo nascondere che il Giudice, nel valutare l’incidenza del disturbo psichico ai fini dell’imputabilità, è oggi chiamato a svolgere una funzione di “perito tra i periti” dovendo egli stabilire quale modello scientifico debba prevalere tra quelli proposti a causa della genericità delle previsioni normative. Si tratta invece di avere presente la complessità del disagio psichico, ancorchè ciò non debba significare che limiti cognitivi possano essere confusi con momentanee perdite di autocontrollo determinate da istinti emotivi, condizioni queste che potranno comunque essere valutate in sede di accertamento del fatto nei limiti dell’operatività dell’art. 90 c.p., alla luce anche dei contributi della più moderna psichiatria.

Nel percorso decisionale il Giudice potrà contare sul contributo della difesa tecnica. Proprio la cronaca giudiziaria di questo ultimo periodo richiama casi nei quali i difensori hanno posto con forza la richiesta di valutazione delle condizioni di mente dell’assistito, sfidando il giustizialismo imperante ed esponendosi alle aggressioni dei leoni da tastiera: si reclama a gran voce la dimensione carcerocentrica quale sola soluzione ritenuta adeguata, così di fatto sacrificando il diritto di ogni individuo, costituzionalmente garantito, alla cura, che prima di tutto significa incompatibilità della malattia mentale con il carcere.

L’accusato deve essere non solo imputabile ma anche capace di affrontare il difficile percorso dell’accertamento giudiziale. Per essere giusto il processo deve riconoscere pieni diritti e garanzie dell’imputato, ma anche uniformarsi all’ineludibile principio secondo cui la persona sottoposta a processo deve essere posta nelle condizioni di comprendere con pienezza il senso dell’accusa che gli viene rivolta e di partecipare consapevolmente a ogni fase del giudizio. Il dubbio sulla piena capacità di stare in giudizio richiede attente valutazioni tecniche libere da ogni condizionamento, perchè se come ci insegna il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo (canone 22) ”…nel momento del reato il soggetto debole è la vittima, mentre nel momento del processo il soggetto debole è l’imputato”, ancor più bisognoso di tutela sarà chi in ragione di un vizio di mente si trova ad essere autore di reato e sottoposto a processo.

Sabrina Viviani

Autore

Avvocato penalista