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Il processo e la malattia mentale: ragioni e pregiudizi dietro l’incapacità di intendere del reo
Non c’è nozione più difficile da identificare e ancor più da far comprendere, che quella di pena “giusta”. Quali sono i parametri di riferimento corretti, quale l’unità di misura adeguata a calibrarla? L’idea più immediata ed istintiva, direi primordiale, è ovviamente anche la più sbagliata, la più lontana dalle regole di una società civile: è giusta la pena parametrata al danno procurato alla vittima del reato, al dolore che questo ha causato alla vittima ed alle persone che le sono care.
È la più sbagliata perché, invocando senza riserve una riparazione “equivalente” al danno causato, sceglie di ignorare il grado di colpevolezza dell’autore del reato, e con essa le ragioni e le circostanze del suo agire. Perciò la civiltà umana si è affrancata dalla legge del taglione, facendosi carico di motivazioni, circostanze, grado di consapevolezza dell’autore del reato quali elementi indispensabili ed ineludibili di valutazione e di determinazione della pena “giusta”. Tra questi parametri fondamentali, ve ne è uno che suscita particolare ostilità, diffidenza, viscerale avversione: la incapacità di intendere e di volere. Quando l’avvocato difensore dell’imputato chiede al giudice di accertarla o verificarla -totale, parziale o transitoria che sia- la percezione diffusa è quella dell’escamotage difensivo, della comoda via di fuga per sottrarre il proprio assistito alla “pena giusta” che invece egli merita per il crimine che ha commesso.
La malattia mentale come causa
Certo il difensore fa il suo dovere, che è solo quello di percorrere ogni strada lecita e ragionevole per evitare innanzitutto, e comunque per ridurre al massimo possibile la pena cui va incontro il proprio assistito. Dunque, la richiesta di verifica della capacità di intendere può essere non di rado strumentale, pretestuosa, ma di certo mai dannosa o perciò solo ingiusta: sarà il giudice, con l’ausilio dei suoi periti, a deciderne l’ammissibilità prima, e la fondatezza poi. Ma questa diffusa insofferenza verso la sola idea che un crimine possa essere giustificato dal vizio di sanità mentale del suo autore è il segno dei tempi che stiamo vivendo, un po’ in tutto il mondo. Ed è di questo che PQM ha voluto parlarvi, questa settimana. Non solo la cronaca giudiziaria, ma la quotidiana esperienza forense ci dà la misura di questa crescente resistenza a riconoscere la malattia mentale come causa, o concausa, del comportamento criminale; come se quel riconoscimento segnasse un momento di debolezza, di indebita indulgenza, di resa dello Stato nell’esercizio della sua potestà punitiva.
È una tendenza chiarissima, netta, che tratta il tema della colpevolezza con sempre più infastidita e brusca indisponibilità a fare spazio alle ragioni della eventuale incapacità umana di intendere, comprendere e governare le proprie intenzioni, i propri comportamenti, a causa di fattori patologici clinicamente (seppure non sempre agevolmente) verificabili. Una ostilità, insomma, una resistenza direi culturale sempre più marcata a dare ingresso nel processo penale a quella peculiare causa di non punibilità, o di modificazione della entità della pena e della modalità della sua esecuzione, che deriva della malattia mentale (o dai gravi disturbi della personalità), che ha il sapore triste di una generalizzata volontà di rimozione di un problema tremendo, ma che purtroppo è proprio della natura umana.
Il processo come rituale collettivo e le difficoltà di accertamento
La impetuosa dimensione mediatica della giustizia penale, che sta trasformando sempre di più il processo in una sorta di rituale collettivo, perciò stesso insofferente alla straordinaria complessità di quel giudizio, mal si concilia con la doverosa esigenza di approfondire le complessità delle tragiche vicende umane delle quali si occupa. Quanto più il delitto è efferato e scuote la coscienza collettiva, tanto più il processo sarà scandito dall’assordante rullare dei tamburi social, televisivi e giornalistici. E lì c’è poco spazio per i distinguo, e men che mai per le possibili giustificazioni. La malattia mentale non può essere altro che un fastidioso escamotage difensivo.
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