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Giustizia, che fine fanno i pazienti psichiatrici. Il folle reo e il reo folle: prospettive di trattamento
La normativa che ha condotto alla chiusura dei manicomi criminali ha significativamente allargato l’utenza dei Dipartimenti di Salute Mentale. La legge 180/1978, poi integrata nella L 883/78 istitutiva dell’attuale Sistema Sanitario Nazionale, oltre a prevedere la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici civili, ha stabilito che l’assistenza per la salute mentale è prevalentemente territoriale, attuata tramite servizi ambulatoriali, comunità, case appartamento e centri diurni. Permangono dei reparti psichiatrici per pazienti in una condizione di scompenso psicotico acuto, denominati SPDC che, pur essendo collocati abitualmente all’interno di strutture ospedaliere, appartengono organizzativamente al Dipartimento di Salute Mentale. La riforma psichiatrica del 1978 è stata attuata non senza notevoli difficoltà, ma è certamente considerabile un successo, avendo stabilito un principio generale di umanità nei trattamenti psichiatrici, di tutela della libertà dei pazienti, destigmatizzando la malattia mentale.
La 180, tuttavia, non aveva incluso nel processo di chiusura i manicomi criminali (OPG). Questi erano gestiti dal Ministero di Giustizia con un impianto normativo legato alla legge Giolitti del 1903. Erano strutture già aspramente criticate negli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo; perciò, quando il DPCM del 1° aprile del 2008 ha stabilito il passaggio del sistema sanitario penitenziario in quello nazionale si è posto il problema di come gestire una popolazione di soggetti autori di reato e, contemporaneamente, affetti da gravi malattie mentali. La soluzione adottata, al termine di un contorto e molto ideologizzato percorso, è quella attuale che stabilisce che le persone riconosciute non imputabili o “semi inferme di mente” quando siano “molto pericolose” hanno come destinazione le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) e in caso di un minor livello di pericolosità sono affidate, in libertà vigilata, ai Dipartimenti di Salute Mentale.
Alcuni presupposti che hanno guidato l’azione del legislatore, prima con la L.9/2011 e poi con la L 81/2014 non erano basati su dati obiettivi. Vi era la convinzione che le persone non imputabili e socialmente pericolose fossero poche, che con uno screening adeguato si potessero risolvere la maggior parte dei casi, che non vi fosse necessità di un coordinamento centrale, che non vi fossero pazienti particolarmente violenti e malati di mente. Il legislatore del 2014 ha addirittura ritenuto che fattori sociali e ambientali non fossero rilevanti sul rischio di recidiva, abrogando la lettera d del II comma dell’art. 133 cp. E’ rilevante dare atto che, in forma positiva, la normativa ha portato ad una sostanziale rielaborazione del concetto di pericolosità sociale quando applicato agli infermi di mente autori di reato, facendolo sostanzialmente divenire un percorso di cura proteso alla riduzione del rischio di recidiva.
L’ambizioso impianto legislativo, molto più avanzato di quello presente in qualsiasi paese del mondo, ha concretamente comportato che sui Dipartimenti di Salute Mentale gravino un gran numero di pazienti psichiatrici autori di reato, spesso farmaco resistenti, abitualmente policomplessi, con problematiche di abuso di sostanze, di percorsi di vita distrutti, con episodi multipli di comportamenti aggressivi e violenti e che, comunque, richiedono una intensità di cure elevata, sia in REMS, sia in libertà vigilata. Se a questo si considera che la posizione di garanzia dello psichiatra, oltre ad avere un ruolo di protezione, come per qualsiasi altro medico, ha anche un ruolo di controllo, come più volte ribadito dalla Cassazione, e che i Dipartimenti di Salute Mentale hanno una cronica carenza di organico, si ottiene una situazione lavorativa in ambito psichiatrico che ha condotto alla diffusione di rivendicazioni legate all’abolizione dell’istituto della non imputabilità.
Abolire la non imputabilità
L’idea di abolire la non imputabilità compare periodicamente nell’opinione pubblica in relazione a dinamiche sociali che poco hanno a che fare con il Diritto o con la Scienza. Negli USA dopo l’attentato a Reagan, diversi stati svilupparono una legislazione detta del “guilty but mentally ill” che presuppone una piena imputabilità a qualsiasi persona compia un reato, sviluppando percorsi penitenziari differenziati in sede di esecuzione. La ricerca ha dimostrato che vi è stato un notevole incremento delle persone giudicate non processabili e che i malati di mente che sono detenuti vengono vittimizzati e spesso hanno anche pene più severe apposta perché intrinsecamente più pericolosi perché malati di mente. In Europa solo la Svezia ha un sistema giuridico che non contempla l’istituto della non imputabilità, ma non ha abolito i manicomi, così che l’autore di reato, aprioristicamente imputabile, è poi inviato in esecuzione presso un manicomio civile. Con l’attuale situazione penitenziaria è agevole immaginare cosa avverrebbe agli autori di reato affetti da malattia mentale nei nostri penitenziari, che, peraltro, già ospitano un gran numero di malati di mente.
Un altro tema spesso ricorrente nella critica dell’attuale sistema è la possibilità che persone affette da gravi disturbi di personalità e autori di reato possano essere giudicate non imputabili e inviate ai Dipartimenti di Salute Mentale. Ciò è possibile in virtù di una Sentenza della Cassazione a Sezioni Riunite del 2005, c.d.. “Sentenza Raso”. Curiosamente tale critica non era mai stata mossa prima dell’abrogazione degli OPG e comunque, invece, la suddetta sentenza, qualora correttamente applicata, ridurrebbe i criteri di non imputabilità, in quanto richiede l’accertamento del nesso di causalità tra la malattia mentale e il fatto reato, ovvero una rigorosa valutazione medico legale dei fatti, della condizione clinica e della dinamica del reato.
Giudicare persone affette da gravi malattie mentali e autori di reato in modo esattamente uguale a quello di qualsiasi altro cittadino è una strada che, in assenza di un sistema manicomiale civile o di un sistema sanitario in ambito carcerario superiore a quello svedese, apre la possibilità di abusi, violenze e abbandono di una popolazione fragile e terapeuticamente complessa.
La presenza di una condizione di mente per la quale l’interpretazione della realtà è profondamente stravolta per un disturbo psichiatrico, o perché vi è una situazione di attivazione affettiva incontenibile, o perché si manca delle capacità cognitive minime, è una considerazione clinica specialistica che fornisce all’uomo di legge una prospettiva diversa su come inquadrare e valutare il caso. L’istituto della non imputabilità per alcuni soggetti, valutati come mentalmente “diversi” dalla cosiddetta popolazione normale, è diffuso praticamente in ogni paese dove vi sia una civiltà giuridica. Nella prospettiva del Diritto il concetto tutela l’imparzialità della legge, la quale, per essere giusta, non dovrebbe punire allo stesso modo chi ha una chiara consapevolezza del danno che arreca da chi non la ha. In questo senso l’istituto della non imputabilità è una forma di garanzia dell’equità del sistema penale. Così come non puniamo un bambino che ha compiuto un danno, non puniremo un malato di mente per quello che ha fatto, se lo ha fatto per via della sua malattia. Vi è inoltre una considerazione di tipo consequenzialista alla base del concetto di non imputabilità: non ha senso punire qualcuno che non ha consapevolezza del disvalore di quello che ha fatto per via di un disturbo mentale. In questo senso scienza psichiatrica, con tutti i suoi limiti, e Diritto, hanno sviluppato una collaborazione che ha portato ad una concezione più umana del trattamento di questi pazienti, aprendo effettivamente prospettive di trattamento che, in assenza di una valutazione scientifica (ovvero di una diagnosi e del rapporto tra la diagnosi e il reato) lascerebbero l’infermo in una situazione dove molto difficilmente gli potrebbero essere garantite prospettive di cura.
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