È appena trascorsa la Pasqua, una Pasqua vestita di silenzio in una città quasi fantasma. Le porte delle Chiese sono rimaste chiuse, il marmo delle navate sembra aver sprigionato di colpo un freddo gelido, i sacerdoti hanno detto messa senza i fedeli, le panche di legno sono rimaste vuote. Pochissimi i ramoscelli di ulivo nella domenica delle Palme, quella che precede quella della resurrezione. Una Pasqua che per la prima volta ci ha visto soli e fragili. Ma la solitudine si è insinuata prepotente e ancora più tagliente tra le sbarre del carcere minorile di Nisida, dove l’atmosfera è diventata spettrale. Lo specchio d’acqua salata sembra una tavola di alabastro azzurro, ferma, immobile, che riflette tutte le inquietudini di chi vive al di là delle grate di ferro.

“Le visite sono state sospese – spiega don Gennaro Pagano, cappellano di Nisida- sospesi anche i permessi per il rientro a casa. Per i ragazzi è stato un colpo durissimo. Non poter vedere i propri cari, soprattutto durante le festività, è stato un peso enorme”. Don Gennaro ci ha portato con le parole tra i corridoi silenziosi del carcere, tra le celle e nel cortile deserto. Per un attimo ci è sembrato di incrociare gli occhi dei ragazzi che vivono lì, per loro l’isolamento è più crudele che mai. Esiste la solitudine dell’istituto penitenziario, legata agli sbagli per i quali si deve pagare e ai quali ci si abitua, e poi c’è la solitudine del cuore, quella che non ti fa abbracciare la mamma per settimane e alla quale non ci si abitua mai.

“Abbiamo cercato di creare contatti con l’esterno con l’aiuto della tecnologia, i ragazzi hanno avuto il permesso di videochiamare i genitori – racconta don Gennaro – per strappargli un sorriso abbiamo anche chiamato Biagio Izzo, Sal Da Vinci e altri artisti molto amati dai giovani”. Il giorno di Pasqua, nel campetto dell’istituto penitenziario, don Gennaro ha celebrato la messa: “Era importante ricordare ai ragazzi che siamo comunque una famiglia e non farli sentire soli – ha spiegato – e domenica, all’interno del carcere, alcuni detenuti hanno ricevuto anche la prima comunione”. Ciò che colpisce è che, di fronte a una tragedia, ci siamo resi conto di essere tutti uguali, che poco conta chi è buono e chi non lo è, chi è ricco e chi è lo è meno.

Ci siamo riscoperti tutti, inaspettatamente e terribilmente, fragili. “Mi ha sorpreso vedere che i ragazzi hanno ritrovato un’autenticità ormai perduta – racconta il cappellano – Siamo tutti parte di un’umanità debole. Ho percepito l’esigenza fondamentale di tornare all’essenziale”. Assistiamo al crollo delle impalcature che ognuno di noi aveva costruito dentro sé. Stiamo scoprendo che ciò che ritenevamo un valore in realtà non lo è, e che un gesto apparentemente banale come una carezza invece ha un valore immenso. “Nessuno si salva da solo: è da questa certezza che tutta la società deve ripartire”, conclude don Gennaro Pagano.