Finora l’idea che l’origine della pandemia da Covid-19 potesse essere frutto di una fuga da un laboratorio di Wuhan sembrava soltanto una bufala. La scorsa settimana le cose sono cambiate quando il presidente Joe Biden ha ordinato all’intelligence del suo paese di investigare sul punto e di riferire entro 90 giorni. Ad aprire le danze un articolo del Wall Street Journal che rivelava i risultati di un rapporto dei servizi: vi si legge che tre ricercatori dell’Istituto cinese di virologia di Wuhan si sono ammalati già nel novembre 2019 e hanno dovuto essere ricoverati in ospedale. Ma il governo di Pechino ha cercato di nascondere il caso. «Ho chiesto ulteriori indagini che potrebbero essere necessarie, comprese domande specifiche per la Cina. Ho anche chiesto che questo sforzo coinvolga i nostri laboratori nazionali e altre agenzie del nostro governo», ha detto Biden in una nota.

E poi ha aggiunto: «L’impossibilità di portare i nostri ispettori sul campo in quei primi mesi ostacolerà sempre qualsiasi indagine sull’origine del Covid-19». In questo momento l’intelligence americana appare divisa: da un lato, ci sono quelli che “il virus è emerso dal contatto umano con un animale infetto”; dall’altro, quelli che “il virus è un incidente di laboratorio”. Lo stesso Anthony Fauci, l’immunologo ufficiale della Casa Bianca, ha dichiarato che non esistono prove che l’origine del virus sia stata provocata dall’uomo, ma che non si sente ancora di escludere questa ipotesi. Fauci ha riconosciuto che lui e altri scienziati sono stati troppo frettolosi nel respingere, tra le altre, la possibilità di un incidente di laboratorio.

Certo, per Biden c’è pure la necessità di tenere la Cina il più possibile sotto scacco in quanto competitor strategico globale degli Usa. Allo stesso tempo, però, è forte l’esigenza di tutto il mondo economico di contare su informazioni trasparenti e dati certi. Infatti, se non si capisce come il virus è nato e si è diffuso, l’economia globale continuerà a essere esposta ai potenziali danni provocati da una minaccia che non è stata sufficientemente indagata e compresa. E che potrebbe ripetersi, perfino con maggiore virulenza. In più, senza una verifica della credibilità della Cina, spesso partner diretto in diversi accordi commerciali, troppi dossier economici resterebbero in balìa della inaffidabilità dell’interlocutore asiatico.

D’altra parte, al di là delle schermaglie da Guerra Fredda, la connessione economica tra le due principali potenze mondiali appare sempre più stretta. La settimana scorsa Goldman Sachs, colosso dell’industria finanziaria americana, ha presentato una partnership con la Industrial and Commercial Bank of China di proprietà del governo di Pechino. L’accordo consentirebbe all’azienda di Wall Street di attingere ai risparmi di centinaia di milioni di clienti cinesi della banca. Ciò dimostra che, nonostante la competizione geopolitica e la spinta al “decoupling” economico, la finanza americana non è mai stata così strettamente intrecciata alla ricchezza cinese come oggi. Sedotte dai risparmi non sfruttati e dal crescente mercato della gestione patrimoniale (che nel 2020 valeva già 18,9 trilioni di dollari), le aziende di Wall Street si stanno radicando sempre di più nel paese. BlackRock, ai primi di maggio, ha comunicato l’avvio di una partnership di gestione patrimoniale con China Construction Bank. JP Morgan ha annunciato l’intenzione di investire 415 milioni di dollari nella China Merchants Bank.

In Cina, il settore della gestione patrimoniale è solo una parte di un mosaico di iniziative di risparmio, insieme a un’espansione delle attività di fondi comuni di investimento, che le società estere possono ora possedere interamente.
Inoltre, l’invecchiamento della popolazione cinese costituisce sempre più una miniera d’oro. I dati del censimento pubblicati questo mese mostrano che la Cina cresce al ritmo più lento degli ultimi decenni: gli over 65 rappresentano ora il 13,5 per cento della popolazione, rispetto all’8,9 per cento nel 2010. Ciò significa che il sistema pensionistico sarà sempre più stressato e che la Cina deve orientare con urgenza la sua popolazione a investire nei risparmi alternativi per proteggersi dalle insidie della vecchiaia. «È una nazione di risparmiatori, ma il risparmio avviene prevalentemente in contanti e immobili», dichiara al Financial Times Susan Chan, capo della divisione Asia di BlackRock. «I mercati dei capitali, l’infrastruttura e il modo in cui guardano alla gestione patrimoniale sono ancora relativamente giovani», aggiunge.

Tuttavia, se entrare in Cina rapidamente è ormai molto facile, per gli investitori è una vera sfida fronteggiare le incertezze normative provocate dal dominio assoluto di un partito comunista onnipotente, al governo dal 1949. Finora i regolatori cinesi e le aziende occidentali hanno operato su base pragmatica, ma il rischio più grande sono i capricci e l’opacità della politica e dell’amministrazione locali. «La Cina è un mercato troppo grande per essere ignorato, ma in fondo alla tua mente si agita sempre un dubbio: che cosa può andare storto?», ha detto Gregory Warren, analista azionario senior di Morningstar negli Stati Uniti. «In Cina, le regole e gli atteggiamenti possono cambiare da un giorno all’altro». Più di tutto, le imprese statunitensi temono di perdere i loro guadagni a causa della discrezionalità dei regolatori locali. E della mancanza di trasparenza delle istituzioni cinesi. Proprio come nel caso del virus di Wuhan.

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