La lunga barba incolta da eremita spelacchiato lo fa somigliare un po’ a Alexandr Solgenitsin, il quale costretto all’esilio, scelse una montagna di neve nel Vermont che gli ricordasse la patria perduta. Alexander Dugin, che abbiamo visto paralizzato dalla vista del rogo in cui sua figlia Darya ardeva dopo l’esplosione dell’autobomba destinata a lui, era ed è vivo, ma ferito a morte. Le sue prime parole sono state: “La sola vendetta non può bastare. Sono stati i nazisti di Kiev e vanno puniti”. Ma i sospetti sulla matrice dell’attentato cadono su due fronti: sia su quello degli ucraini – i quali negano – sia su quello dei maledetti (da Dugin) russi occidentalizzanti che si fanno arrestare per le proteste contro la guerra e che rimpiangono il Bancomat, McDonald, gli smartphone e tutta la immondizia che viene dall’Occidente, così pensa Dugin…

Non è ora che gli “occidentalizzanti” crepino tutti? È quello che auspica Dmitry Medvedev che per anni si è avvicendato sulla poltrona presidenziale con Putin (per rispettare le forme) e che, come vicepresidente del Consiglio di Sicurezza, grida a favore di telecamera che “gli occidentali fanno schifo e spero che muoiano tutti”. Espressioni collettive e dunque razziali perché non si riferiscono ad un solo nemico, come fa Biden quando dà dell’“assassino” a Putin, ma nei confronti di interri popoli: quella è tutta farina del sacco di Dugin, il quale fa parte del circolo di Putin, fra cui è uno dei più ascoltati. Alexander è un sessantenne ben educato nell’Istituto di Aeronautica di Mosca e da giovane fu un dissidente perché non tollerava le gerarchie militaresche. Ma i suoi eroi erano Josef Stalin e il filosofo tedesco un po’ esistenzialista e un po’ nazista Martin Heidegger, debitore sia di Jean Paul Sartre che di Nietzsche non estraneo alla politica di annientamento degli ebrei malgrado la sua controversa storia con la giovanissima Hanna Arendt, ebrea.

Lo hanno chiamato il “Rasputin di Putin”, ricorrendo all’anima nera dell’ultimo Zar Nicola prima che tutta la famiglia Romanov fosse massacrata a colpi di pistola negli scantinati del loro palazzo. Ma è un’idea priva di alcun fondamento: Rasputin era una specie di santone superstizioso, Dugin a suo modo è razionale. Nasce come privilegiato figlio di analisti del Kgb ed è stato educato a pensare n termini di “geopolitica” alla scuola di Yuri Andropov –spietato modernizzatore del Kgb e poi Segretario Generale del Pcus, con fama di modernizzatore occidentalizzante, del tutto inventata. Lo definivano l’uomo che beveva whiskey (cosa che incantava gli americani) ma la sua più rilevante impresa fu quella di adottare e addestrare il giovane Michail Gorbaciov per la grande operazione “perestroika-glasnost” che incantò tutti coloro che incoraggiavano ogni segnale di evoluzione dal pietrificato mondo sovietico di cui le cespugliose sopracciglia di Leonid Breznev erano il segno grafico, quanto i baffoni di Stalin.

Quando l’Urss crollò separando la Russia dalla Bielorussia e dall’Ucraina, il sogno imperiale dell’imperatrice Caterina, di Pietro il Grande e dello stesso Stalin sembrava infranto e disperso. La Russia sembrava finita, ma un piccolo tenente colonnello che amava farsi fotografare a petto nudo a cavallo come un cowboy, fu selezionato e scelto dai vecchi capi del Kgb, rimasto unito dopo il crollo un istituzione ancora in piedi sulle macerie degli anni di Boris Eltsin. Putin fu selezionato nella fase finale della presidenza di Eltsin in una Russia devastata dagli oligarchi che si erano appropriati del tesoro sovietico. Dugin in quegli anni si confermava come l’intellettuale ideologo della rinascita di una Russia stanca di sconfitte, mutilata dei pezzi dalla corona zarista come la Polonia, le tre Repubbliche Baltiche, la Bielorussia e la stessa Ucraina, delusa dalle sirene occidentali. La democrazia occidentale non era andata molto oltre i fast food McDonald.

Fui di fronte a quello smarrimento che tutti gli sforzi dell’ex Kgb puntarono su Dugin che diventò una star dell’editoria, il propagandista del connubio fra bolscevismo e nazionalsocialismo, profeta della finale vittoria russa sul resto del mondo. Con un nemico ben identificato: l’abietto, corrotto, decadente occidentalismo con tutti i suoi lussi e lussurie. Questi aggettivi fanno parte della retorica di Putin in persona e dei putiniani capeggiati da Medvedev. Dugin ha messo insieme una miscela già usata: un connubio fra nazionalismo sfrenato e bolscevismo, convinto che la Russia sia destinata ad annichilire l’Occidente, sterco del diavolo, e l’America casa di Satana. Un linguaggio non troppo diverso da quello degli Ayatollah iraniani. Il suo immaginario attinge alle numerose fasi in cui tedeschi e russi si sono trovati sullo stesso destriero, salvo trafiggersi a morte.

Nelle sue memorie compare il Trattato di Rapallo del 1920 quando bolscevichi e gli uomini della Repubblica di Weimar strinsero l’alleanza fra i vinti della Prima guerra mondiale per scambiarsi ciò che veniva negato dalla pace di Versailles: lo spazio per i tedeschi e l’accesso alla tecnologia ai russi. Fu così che, molto prima che Hitler conquistasse il potere, fabbriche belliche tedesche su suolo russo e scuole di guerra comuni formarono gli ufficiali che poi si trovarono nemici durante la Grande Guerra Patriottica che per i russi non coincide con la nostra Seconda Guerra Mondiale ma comincia solo con l’invasione tedesca del 22 giugno del 1941.

Non per caso Putin è stato un grande estimatore, ricambiato, della Merkel. Non per caso l’ex Cancelliere tedesco Schroder Presidente di Gazprom in Germania è considerato un uomo dei russi perché certamente ai nostri tempi è totalmente ripristinato, come Dugin raccomanda, il legame fra russi e tedeschi sconvolto dal tradimento di Hitler di fronte al quale Stalin era incredulo, tanto da far fucilare quasi tutti coloro che lo avvertivano dell’imminente voltafaccia. Dugin ha insegnato a Putin a dire sempre di voler distruggere dei “nazisti” così come fece Krusciov incoraggiato da Togliatti e da Mao Zedong ad intervenire contro la rivoluzione ungherese, perché “fascista” seguendo la tradizione iniziata dal 1953 con la repressione degli operai “fascisti” di Potsdam, i praghesi della mancata primavera Dugin anche oggi, dopo il tremendo attentato in cui è morta sua figlia, parla delle responsabilità dei nazisti ucraini.

Su questa strada Putin lo aveva seguito con entusiasmo annunciando la “denazificazione” dell’Ucraina e dei diciottenni nazisti del battaglione Azov. Dugin non ha dubbi sul fatto che la Russia debba usare la forza militare per riprendessi ciò che considera suo e cioè non solo la Russia propriamente detta ma l’intera Eurasia contesa alla Russia dall’Occidente che va combattuto con le armi, senza farsi impressionare dalle emozioni della guerra nucleare. Finché Putin flirtava con l’Occidente durante i primi anni Duemila, Dugin lo avversava. Dal momento in cui Putin ha mosso le sue armate prima in Cecenia, poi in Crimea, in Georgia, in Siria e ora in Ucraina, Alexander è diventato un suo consigliere e un sostenitore con il suo Fronte nazionale bolscevico trasformatosi in Partito Eurasia.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.