Se la Presidenza del Consiglio accoglierà la richiesta di risarcimento dell’avvocato romano Andrea Rossi per conto dei suoi clienti, gestori dell’autosalone Gamma di Ostia, sarà lo Stato a pagare, con la bella cifra di sei milioni e centomila euro, per la “colpa grave” di pubblici ministeri e giudici. Oltre agli uomini della Guardia di finanza. Sono stati commessi errori, o c’è invece “colpa grave” per imperizia, incuria, scarsa professionalità? Errore, no di certo, nella vicenda che stiamo per raccontarvi. E se finirà con il risarcimento ai due soci della “Gamma srl”, titolari di un autosalone di Ostia dal 1996, sappiamo già che il denaro uscirà dalle tasche di tutti noi cittadini, perché i magistrati che sbagliano non pagano mai, grazie anche all’ultima decisione della Corte Costituzionale. Quella che secondo il neo Presidente Giuliano Amato, non avrebbe dovuto “cercare il pelo nell’uovo” e che invece l’ha trovato nel proteggere le spalle alle toghe. E vedremo anche se di questi magistrati, e delle loro responsabilità, si occuperà il Csm.

Partiamo dal 2015 e dalle inchieste di mafia che coinvolgono le famiglie degli Spada sul litorale di Ostia. C’è un “pentito” romeno (poteva mancare?) di nome Paul Dociu il quale, sentito dalla procura di Roma (pm Ilaria Calò, dal 2020 nominata procuratore aggiunto dal Csm) unitamente agli uomini dello Sco, segnalava l’esistenza dell’autosalone “Rosa car”, gestito dagli Spada in via dei Romagnoli 147/151 a Ostia, dando anche indicazioni piuttosto precise sull’ubicazione: “Prima del cavalcavia e dopo un albergo”. Chiarissimo. Tanto che gli uomini della squadra mobile annotano che l’autosalone chiamato “Rosa car” in via dei Romagnoli 147/151 svolge “attività commerciale di fatto di proprietà di Carmine Spada e Carlo Franzese”. Da quel momento le indagini dei pubblici ministeri Ilaria Calò e Mario Palazzi si intensificano, con intercettazioni nei locali di vendita auto che porteranno a numerosi arresti e alla chiusura del “Rosa car”. Agli esponenti della famiglia Spada viene contestata l’aggravante mafiosa, quindi, in contemporanea alle indagini penali parte anche il procedimento delle misure di prevenzione, che sono affidate alla Guardia di finanza.

Sono passati due anni dall’inizio dell’inchiesta e dalla collaborazione di Paul Dociu che con tanta abbondanza di particolari aveva indicato l’autosalone “Rosa car” come luogo di incontri e di affari del clan. A questo punto che cosa fanno i solerti agenti del Gico specializzati nelle misure interdittive? Pur disponendo dell’intera deposizione del “pentito”, ne leggono solo una riassuntiva e priva di tutti quei bei particolari che il cittadino romeno aveva sciorinato con tanta cura. Poi vanno sul luogo a cercare l’autosalone. Solo che il “Rosa car” non c’è più, è stato chiuso su disposizione dell’autorità giudiziaria. Al suo posto c’è un parrucchiere. Un attimo di smarrimento. Poi la genialata, visto che 350 metri più in là ce ne è un altro, di venditore di auto. Vabbè, si chiama in un altro modo, “Gamma auto”, ma fa lo stesso. Conseguenza? La Guardia di finanza, sulla base di questo primo “errore”, presenta la proposta della procedura di prevenzione nei confronti dei titolari dell’autosalone, Piergiorgio Capra e Giovanni Deturres.

L’incubo ha inizio. Perché a “errore” si somma “errore”. Signori del Csm state a sentire! A chi si rivolgono gli uomini del Gico per aprire quella procedura di prevenzione che ha ormai sostituito per durezza la stessa indagine penale nell’antimafia? Naturalmente ai pubblici ministeri Calò e Palazzi, gli stessi che hanno indagato, intercettato e poi chiuso il “Rosa car” degli Spada. Si accorgeranno dell’errore, penserà qualcuno. Assolutamente no. Forse erano distratti da altri problemi, dalla carriera, dalle correnti sindacali, chissà. Ma la cosa più incredibile è che i due pm usano le dichiarazioni del “pentito” Dociu per chiedere e ottenere il sequestro e la confisca della “Gamma auto”, che diventa improvvisamente luogo di riferimento del clan degli Spada. Così non aveva detto il collaboratore di giustizia, ma così viene stabilito dalla Procura di Roma e anche dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale. Parte l’amministrazione giudiziaria. I due soci si affannano a raccogliere e presentare documenti, fanno ricorsi, ma invano. La giustizia ha i suoi tempi e le sue regole, anche quella di inghiottire i propri “errori”.

La società “Gamma auto” e le stesse persone dei due soci finiscono nel meccanismo infernale del “sistema prevenzione”, quello che nel libro di Nessuno tocchi Caino (Quando prevenire è peggio che punire) viene bollato come vera inquisizione. I magistrati contestano alla società di non aver presentato i bilanci. Ma è falso, come risulta anche dalla certificazione della Camera di commercio. Nell’analisi della congruità dei redditi degli Spada vengono coinvolti anche Piergiorgio Capra e Giovanni Deturres, cosa inusuale in quanto “terzi”. Ma si compiono addirittura strafalcioni. Si contesta al primo il fatto che, perché il suo reddito fosse “congruo” con il giro d’affari della società, avrebbe dovuto denunciare almeno trentasei milioni di lire nell’anno 1990. Cioè quando lui aveva diciannove anni e, avendo ripetuto una classe, andava ancora a scuola. Del suo socio, che è più anziano, sono stati cancellati vent’anni di lavoro dipendente con relativi versamenti contributivi. Inoltre, ogni versamento di denaro proveniente dal conto corrente della madre di Piergiorgio Capra viene attribuito agli Spada. Sciatteria, incapacità professionale? Come dobbiamo qualificare questo inferno, questa tortura, questo incubo?

L’incubo è finito, almeno nella sua parte principale, dopo tre anni, quando, e siamo al 3 dicembre 2021, passa in giudicato il decreto del 18 novembre precedente con cui la Corte d’Appello di Roma ha revocato il sequestro e la confisca della Gamma Auto srl e dell’Autosalone, e poi restituito a Capra e Detorres le quote della società e l’azienda. Ma nel frattempo che cosa era accaduto nei tre anni di passione? In seguito al sequestro e confisca della società, i due titolari hanno sostenuto spese per l’amministrazione giudiziaria, sono finiti nelle black list bancarie, assicurative e finanziarie, hanno visto i conti correnti chiusi, e dopo la “riemersione” bancaria, hanno subito l’applicazione dei massimi interessi. Oltre al danno d’immagine e la distruzione di tre anni di vita, il peso economico di tutta la vicenda è stato notevole. Giusto quindi chiedere il risarcimento.

Ma tutto il resto? È sconvolto, “anche sul piano emotivo”, l’avvocato Andrea Rossi, che ci ha segnalato questa storia e che ringraziamo, perché tutti la devono conoscere, compresi i membri del Csm che fanno le promozioni, visto che vicende come queste non entrano nei curricula dei magistrati. “Una delle più gravi ingiustizie che mi sia capitato di vedere in trent’anni di professione –dice l’avvocato Rossi- sembrava che i magistrati non volessero proprio vedere l’evidenza”. Come dargli torto? Ma purtroppo quel referendum sulla responsabilità diretta delle toghe non s’ha da fare.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.