La settimana prossima, in una conferenza all’Assemblea Regionale Siciliana, a partire dal libro di Nessuno tocchi Caino Quando prevenire è peggio che punire, presenteremo le proposte di legge per porre fine ai torti e ai tormenti dell’Antimafia. Ci arriverò preparato dopo aver letto con molta attenzione un articolo della professoressa Daniela Mainenti su Il Fatto quotidiano. Dopo averlo letto, ho dovuto rileggerlo con più attenzione perché non ci avevo capito niente. La professoressa ha cercato di rassicurarci sulla legittimità delle misure di prevenzione, spiegandoci che le loro origini non risalgono al periodo fascista. Ho tirato un sospiro di sollievo.

Ma il sospiro mi si è spezzato nel petto e il sollievo è durato poco perché, subito dopo, ha precisato che la confisca di prevenzione troverebbe il suo antecedente storico niente meno che nel diritto romano! Questo dovrebbe farci stare tranquilli perché ci permetterebbe di constatare “l’interesse degli ordinamenti giuridici verso le misure patrimoniali”. Che vi fosse interesse a confiscare e a sopraffare gli inermi per sete di potere non lo metto in dubbio. Il problema è che talvolta nella storia millenaria dell’umanità non c’è stato il dovuto rispetto per i diritti umani inviolabili. Mi preoccupano molto le “analogie” con la confisca del diritto romano. C’è chi sostiene che lì la confisca aveva sostanzialmente natura di pena applicata a seguito di certi reati. E già all’epoca si prestava ad abusi perché i beni venivano incamerati dall’imperatore.

Lungi da me fare analogie con gli odierni amministratori giudiziari nelle cui mani finiscono le aziende confiscate, le quali costituiscono moderni uffici spesso di collocamento per amici, parenti o persone di fiducia dei giudici che le sequestrano. C’è poi da rabbrividire perché, oltre alla confisca, il diritto romano prevedeva la schiavitù, la pena di morte, la tratta di essere umani e la tortura. Vogliamo riportare in vita anche questi istituti? Noi siamo riusciti a fare peggio degli antichi romani: ci siamo spinti fino a concepire la confisca nei confronti di persone che non hanno commesso alcun reato: gli assolti, quelli che non sono stati mai rinviati a giudizio! Beccaria riteneva la confisca dei beni del condannato una vera e propria barbarie, in aperto contrasto con i principi dell’illuminismo giuridico. Oggi, invece, l’antimafia nostrana ci propone la confisca senza condanna come l’avanguardia del diritto. Qualcosa non torna.

Ma ritorniamo a noi. La proposta della senatrice Gabriella Giammanco cerca di riportare il sistema attuale delle misure di prevenzione al dettato originario della Rognoni-La Torre. La scelta è mettere al centro la persona con tutti i suoi valori, per rispettare i principi fondamentali della civiltà giuridica: giusto processo, principio di legalità, presunzione d’innocenza. Poi ancora il “chi sbaglia paga”, mentre chi viene rovinato ingiustamente dallo Stato deve essere risarcito. Insomma – mi rendo conto – cose di poco conto per chi è accecato dalla furia antimafiosa. Si tratta però di cose che, quando non sono rispettate, allontanano l’azione dello Stato dall’obiettivo sacrosanto di contrastare il crimine e distruggono la vita altrettanto sacra degli innocenti. In poche parole: sì alla confisca nei confronti dei mafiosi, no alla confisca nei confronti degli innocenti. Non si può citare Falcone per sabotare ogni tentativo di riforma liberale della legislazione antimafia. Soprattutto se ci si dimentica che, per Falcone, la cultura del sospetto non era l’anticamera della verità ma del komeinismo. Quella cultura del sospetto che permea di sé l’intero sistema delle misure di prevenzione.

Ci sono tanti interrogativi di diritto sostanziale e processuale ai quali io, da umile lavoratore, non riesco a dare risposta. Ancora più impegnative sono però le domande alle quali anche la professoressa Mainenti dovrebbe rispondere. È giusto che lo Stato faccia vivere nel terrore e nella disperazione chi non ha fatto niente? Lo chiedo, perché gli effetti delle misure di prevenzione sono proprio questi. E da qui si deve partire per giudicare e correggere un istituto giuridico. Non si può ragionare solo sulle finalità nobilissime che lo dovrebbero giustificare se, per come è strutturato, non è allineato con quelle finalità. Ci vuole tanta forza a sopportare che lo Stato, con leggi barbare, ti toglie il lavoro e lo dà in pasto in qualche caso a parenti di magistrati, avvocati, coadiutori, colletti bianchi senza scrupoli. Il tutto nel nome della “legalità”.

L’unica via d’uscita che lo Stato sembrerebbe indicare ai tanti innocenti finiti nel tritacarne della prevenzione è il suicidio. Ma ma forse neanche questo servirebbe perché la persecuzione continuerebbe, anche dopo la morte, con la confisca agli eredi dei beni dei morti, ma sempre per “prevenire” i reati del defunto, qualora dovesse risorgere! Noi abbiamo scelto la vita, la speranza di un cambiamento verso la giustizia giusta. E, con pazienza, cercheremo di portare avanti le nostre idee, per convincere chi, come la professoressa Mainenti, ha un’opinione diversa.