Il disegno strategico che apre la nuova "Repubblica"
Editoria, tornano gli Agnelli per riprendersi la borghesia liberale
Meglio sporcarsi le mani col grasso dei motori che con l’inchiostro delle tipografie. Sia il vecchio Cuccia al tempo dell’Avvocato sia il più giovane Marchionne al tempo di Elkann hanno sempre invitato gli Agnelli, che sapevano attratti dal potere seduttivo della stampa, a tenersi a debita distanza da testate e redazioni. E in effetti, nonostante quel richiamo quasi istintivo, il disimpegno editoriale della famiglia reale del capitalismo italiano è stato, negli anni, lineare e costante. Ma ora quel tempo è passato, e passate sono anche le convergenti diffidenze per l’editoria da parte del potente banchiere che preferiva l’essere all’apparire e del manager che amava i pullover più delle convenzioni sociali. Finita quella stagione, ecco che gli Agnelli ritornano. Prima, muovendosi a distanza sullo scacchiere europeo, acquisendo buona parte delle azioni dell’Economist e ora rimpatriando per rovesciare a proprio vantaggio i rapporti di forza con i De Benedetti all’interno del gruppo Gedi, vale a dire del primo gruppo editoriale italiano, che oltre a Repubblica e L’Espresso possiede anche La Stampa, quattordici testate locali come il Secolo XIX di Genova, il Piccolo di Trieste e il Tirreno in Toscana, tre radio tra cui la molto politicizzata Radio Capital, e riviste influenti come Limes e militanti come Micromega.
In molti ora si chiedono cosa ne sarà di Repubblica. Del giornale simbolo di questa galassia editoriale. Del giornale cioè, che fatta l’Italia del boom economico, finita la fase aurea del riformismo nazionale, surclassando le esperienze estremiste di Lotta continua e del Manifesto, a partire dal 1976 ha formato gli italiani del tempo successivo, quello del determinismo progressista, di una Storia che doveva solo essere portata al capolinea e che invece si è improvvisamente riaperta. Per riuscire in questa impresa, che aspirava appunto a cavalcare la Storia resistendo ai diktat dei terroristi al tempo di Moro, alle pretese presidenzialiste di un Craxi-Ghino di Tacco e poi di un Berlusconi visto come un pericoloso Caimano, il giornale di Scalfari si è prima graficamente spalancato alla politica e poi si è costituito ufficialmente come il giornale-partito della borghesia riflessiva. La riforma grafica non è stata una pura trovata formale. Scalfari ha abolito la mitica terza pagina che fino a quel momento, a mo’ di diga, avviando subito la sezione culturale dei giornali, li costringeva a sintetizzare la politica in brevi note e noiosi pastoni. Fatto questo, la politica ha cominciato invece a raccontarla e indagarla (di fatto a trasformarla) senza limiti di pagine e attraverso mille espedienti narrativi, dai dettagli dei Comitati centrali del Pci colti al cannocchiale da Giampaolo Pansa ai monologhi teatralizzati di Saviano, passando per le domande inquisitorie suggerite dalle procure e rivolte al Palazzo da Giuseppe D’Avanzo.
Questo quotidiano che a partire dal formato, il tabloid, ha cambiato la storia del giornalismo italiano e che col tempo è diventato un marcatore antropologico di stili di vita e di mode culturali, oggi tutti si chiedono che fine farà. Riuscirà, una volta targato Fiat, e con tutto il rispetto per la redazione, a preservare autonomia e identità? (Giovanni Valentini su Il Fatto). Proverà a dare battaglia al Corsera, visto che a via Solferino hanno sdoganato i nazional-populisti anche se non li hanno sposati? (Stefano Cingolani su Il Foglio). Resterà progressista e di sinistra? (anonimi numerosi). Ma la domanda giusta non è tra queste, tutte dipendenti dal fatto che qualcosa di certo potremmo saperlo solo vivendo. La domanda giusta è un’altra: perché proprio ora gli Agnelli, sedotti e abbandonati, tornano a frequentare le redazioni? E qui, prima ancora di una risposta, colpisce subito una coincidenza. Gli Agnelli entrano in scena proprio quando Berlusconi finisce nel cono d’ombra creato da Salvini e Meloni. Dopo avergli lasciato libero il campo, quando il Cavaliere scendeva in politica e in quattro e quattr’otto tirava su il suo partito, gli Agnelli quasi tornano fisicamente a riprenderselo. Una simbolica staffetta, ma anche uno scherzo del destino. La promessa mancata di una rivoluzione liberale ha lasciato in sospeso, come davanti a uno schermo quando si impalla l’immagine, l’altra metà della borghesia che aveva creduto in quella svolta. E se dopo trent’anni, con una stagnazione economica alle porte, nel vivo di una società signorile di massa, come la chiama Luca Ricolfi, la rivoluzione non offre più una prospettiva credibile e addirittura lascia ampi margini a suggestioni antieuropee, populismi e sovranisti vari, gli spazi che a catena si aprono non sono più solo quelli del mercato editoriale. Dopo anni di radicalismo variamente declinato, titolato e impaginato dalla Repubblica di Scalfari, probabilmente a quella borghesia si vuole ora offrire altro. Qualcosa di più “istituzionale”, di più “composto”. Qualcosa che non si esaurisca nello spontaneismo delle piazze o nel guizzo creativo di moltitudini strette come sardine.
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