L'analisi
Elezioni USA, il boom dei sondaggi e l’effetto di Davison: influenzano sempre gli altri e mai noi stessi
La notte dell’8 novembre 2016, andammo a dormire convinti che Hillary Clinton sarebbe stata eletta presidente degli Stati Uniti. Al risveglio, Donald Trump era il 45° presidente. I sondaggi avevano sbagliato! Non era la prima volta.
L’errore più clamoroso è del 1936, quando Literary Digest tentò di prevedere l’esito delle elezioni presidenziali americane. Inviò questionari a 10 milioni di americani ricevendo oltre 2 milioni di risposte. Prevedeva una vittoria di Alf Landon con il 57% dei voti contro il 43% di Franklin D. Roosevelt. Ma il giorno delle elezioni, Roosevelt vinse con oltre il 60% dei voti. Quale fu l’errore? Un campionamento non rappresentativo. La rivista, un tempo prestigiosa, perse credibilità e chiuse i battenti due anni dopo.
L’errore medio dei sondaggi
I sondaggi “ci azzeccano”? Secondo uno studio del 2017 che ha analizzato 31.310 sondaggi relativi a 473 elezioni in 40 paesi, l’errore medio dei sondaggi condotti nei sette giorni precedenti le elezioni è di +/-2,5%. Un ulteriore studio del 2023 su 29 elezioni e 1.400 sondaggi ha confermato questi risultati. Più ci si avvicina al voto, più l’errore si riduce, ma rimane invariato nell’ultima settimana.
Tra il 1984 e il 2000, negli USA i sondaggi elettorali sono aumentati del 900%, e la tendenza è in crescita, malgrado molti studi indichino che le persone si fidino poco dei sondaggi e tendano a credere soprattutto a quelli che confermano la loro opinione. Molti paesi impongono restrizioni. Secondo uno studio del 2017 condotto dalla World Association for Public Opinion Research (WAPOR) e da ESOMAR, su 133 nazioni esaminate, 77 (circa il 58%) hanno un periodo di “blackout” in cui è vietata la pubblicazione di sondaggi pre-elettorali. L’Italia è tra questi.
L’influenza dei sondaggi
Si ritiene che i sondaggi possano influenzare negativamente la democrazia, condizionando il risultato elettorale e influenzando gli elettori. Ma è davvero così? La scienza non offre risposte definitive. Alcuni studi evidenziano l’effetto bandwagon: gli elettori tendono a sostenere il candidato in testa. Altri riscontrano l’effetto underdog: aumentano il sostegno al candidato in svantaggio. Spesso questi studi si basano su percezioni soggettive e l’elettore crede che i sondaggi influenzino gli altri più di quanto influenzino lui stesso. È l’effetto terza persona.
Nel 1983, il sociologo W. Phillips Davison coniò questa espressione per descrivere il fenomeno in cui una persona crede di essere meno vulnerabile alle influenze mediatiche rispetto agli altri. Per Davison, pensiamo che gli altri non siano in grado di analizzare le informazioni con la nostra acutezza, sia per mancanza di dati sia per insufficiente capacità critica. Tendiamo a considerarci speciali, crediamo di essere razionali e immuni alle manipolazioni, mentre gli altri sarebbero facilmente influenzabili. Eppure, i sondaggi hanno effetti tangibili sui mercati finanziari. Uno studio del 2021 sulle elezioni americane del 2016, pubblicato su Quarterly Review of Economics and Finance, ha dimostrato che i prezzi azionari reagivano alle variazioni della probabilità di vittoria di Trump. Il paradosso è evidente. I sondaggi ci piacciono, forse di più di quanto ci piacciono le persone che ci credono.
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