Elly Schlein mostra i denti. Prima decide di firmare il referendum della Cgil sul Jobs Act, restaurando la storica e sia pur polverosa cinghia di trasmissione. Poi chiama la sinistra a scendere in piazza contro il progetto del premierato e l’autonomia differenziata. “Portiamo la battaglia per la Costituzione anche fuori dal Parlamento”, dice, “usiamo i nostri corpi e le nostre parole per fare muro”. I nostri corpi. Un’allusione alla biopolitica, forse. Una citazione di Foucault (o di Roberto Esposito) tanto più discutibile oggi, quando le sezioni dei partiti sono vuote di militanti in carne e ossa e i corpi, piuttosto, occupano le manifestazioni degli studenti filopalestinesi e altri corpi vengono massacrati dai missili di Putin e dai lupi feroci di Hamas.

Ma non è tutto. Per la prova di forza del popolo di sinistra, la segretaria del Pd sceglie un giorno altamente simbolico, il 2 giugno, portando così sotto il fuoco incrociato delle barricate non soltanto la riforma costituzionale e la riforma regionalista, ma la stessa Repubblica, la forma della nostra democrazia. Una scelta grave o, peggio ancora, superficiale. Divisivo è stato, giorni fa, per le ragioni ben note, il 25 aprile e divisivo si vuole che diventi il 2 giugno. L’ha detto a chiare lettere Francesco Boccia, rinfacciando alle destre di “non avere scritto la nostra Costituzione e di pensare oggi di stravolgerla”. Nelle piazze del 2 giugno, è sembrato intendere il luogotenente di Schlein, si confronteranno gli eredi dei costituenti e gli eredi del fascismo. Parole che – si spera inconsapevolmente – rischiano di spezzare anche l’unità rituale del paese. A

La vecchia frattura

Boccia andrebbe ricordato quel che accadde il giorno del referendum istituzionale, il 2 giugno del 1946, quando, dopo una campagna elettorale che pure era stata molto aspra, tredici milioni di repubblicani prevalsero su undici milioni di monarchici. Detto altrimenti, il paese si scopriva realmente diviso in due e la divisione aveva un marcato carattere territoriale. Nord e Sud, tanto per cambiare. Nelle regioni centrosettentrionali i monarchici erano stati appena il 36 per cento, nelle regioni meridionali arrivarono al 67 per cento. A Napoli furono l’80 per cento. Ma quello era il tempo della politica e i partiti, benché segnati da fratture ideologiche oggi impensabili, seppero gestire quella vistosa frattura con efficacia. Un esempio? Quando, in attesa del primo Parlamento, si trattò di eleggere un capo provvisorio dello Stato, la scelta cadde sul giurista meridionale Enrico De Nicola, un monarchico che era stato presidente della Camera nell’Italia prefascista, e fu proprio Togliatti a mediare tra le forze politiche. Certo è che i monarchici, sebbene fossero molti, non diventarono mai un grande partito.

Verso il 2 giugno

Altri tempi certo. Nel bene e nel male, Elly Schlein non è Palmiro Togliatti. Ma tradurre la politica in alternative apodittiche, utilizzando il linguaggio e la narrativa della divisività, sembra un gioco sterile. E contraddittorio. Nella piazza del 2 giugno si lanceranno fulmini contro il Jobs Act, sebbene il Jobs Act fu promosso e varato dal Pd (certo, il Pd renziano, oggi ritenuto poco meno che un partito di destra). Si denuncerà la deriva anticostituzionale della proposta di premierato, sebbene di premierato la sinistra, o una sua parte qualificata, vada discutendo ormai da decenni. Si griderà alla spaccatura del paese tra regioni ricche e regioni povere, sebbene l’autonomia differenziata costituisca l’applicazione della riforma del Titolo V, anch’essa voluta dalla sinistra (e questa volta parliamo del partito dalemiano, non del partito renziano). Slogan, insomma, fuochi divisivi che meriterebbero, piuttosto, confronti parlamentari serrati, argomentazioni analitiche, controproposte, emendamenti. Che andrebbero cioè affrontati con pragmatismo e che invece diventano parole d’ordine da megafono, striscioni di piazza, esposizione di corpi. Con me o contro di me. Vecchi vizi di una politica che tradisce la mancanza di un respiro progettuale, che non ha l’ambizione dell’alternanza, che si limita a dire no. E che sembra assuefatta a un destino minoritario, incapace di costruire alleanze credibili, muta rispetto alle praterie degli astensionisti, interessata piuttosto a inseguire la piazza che diventò vincente con Beppe Grillo, con le sue adunate oceaniche, con i corpi del Vaffa.

La forzatura

Ma la scelta del 2 giugno appare come una forzatura anche rispetto ai linguaggi e ai riti che portarono al successo – sebbene effimero – del movimento pentastellato. Né Elly Schlein, né il suo partito hanno l’allure incendiaria del comico genovese, i democrat restano pur sempre un pezzo importante dell’establishment del paese, e recitare due parti in commedia è velleitario. Tanto più sembra pericoloso giocare con la Repubblica, farne un mito divisivo senza starci troppo a pensare. Sono tempi di scelte forti, sul piano interno e internazionale, come spesso ricorda il presidente Mattarella. Tempi di crisi degli Stati nazionali e di difficile ricomposizione delle loro spoglie nella fantomatica unità politica dell’Europa. Il 2 giugno dovrebbe essere perciò, ancor più del 25 aprile, un patrimonio da difendere con le unghie e con i denti. Non certo il teatrino di una prova di forza elettorale.