“Ogni giorno scopro che il mostro di turno è un avvocato, una maestra d’asilo o un carabiniere, un operaio ex-fidanzato, il salumiere sotto casa, un banchiere, una badante, un amministratore Pubblico, finanche un prete ecc. Uno di noi. Una persona che come le altre può sbagliare in quanto la nostra stessa natura regge sulla fallibilità umana; siamo quindi tutti a rischio”. Scrive così V. in una lettera dal carcere. Detenuto, affida a carta e penna le sue riflessioni sul mondo all’interno del carcere completamente contrapposto a quello che c’è fuori. Un “problema culturale”, lo definisce, senza che nessuno si accorga che il dentro e il fuori sono assolutamente connessi. Sia perchè quel che c’è dentro è di fatto quello che c’è fuori, sia perchè prima o poi chi è dentro sarà fuori. Quello che manca e su cui si dovrebbe lavorare concretamente è una riflessione collettiva che ristabilisca un contatto tra dentro e fuori e che possa migliorare tutti. “Perché il problema della Giustizia, del carcere riguarda tutti e tocca tutti da vicino in un modo o nell’altro. A tal punto che farsene carico non è (come detto) una questione di pura pietà o altruismo, bensì di un vero e proprio interesse collettivo”, scrive V. Riportiamo di seguito le sue parole nella lettera a Sbarre di Zucchero che inizia con una preziosa citazione.

“La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino”.

Corte Costituzionale, Sentenza n. 149/2018
Giudice relatore Francesco Viganò

Durante la mia carcerazione, emarginato in questo deposito di vite, mi sono interrogato su molte cose. Mi sono ritrovato a chiedermi anche se questo microcosmo, data la sua caratteristica natura, fosse una realtà a sé stante oppure, se la si potesse considerare ancora come qualcosa appartenente alla società. In questi anni ho sentito chiamare questo luogo in molti modi: discarica sociale, contenitore di mostri, cattedrale nel deserto ecc. Non so (se c’è) quale sia il modo più giusto per definirlo, visto che il carcere è molte cose.

Anche se le persone libere lo definiscono in modi diversi chiamandolo diversamente, restano in gran parte accumunati da una medesima posizione: loro non sbagliano. Sono sicuri di non sbagliare e di essere al di sopra di ogni sospetto, perché nulla di loro può essere messo in discussione. In definitiva: loro non avranno Mai a che fare con le carceri e i carcerati. Il tono di certe affermazioni mi ricorda sempre di quando anch’io procedevo e ragionavo per assolutismi, per visioni unidimensionali, ripentendomi che “non mi beccheranno mai…”. Evidentemente mi sbagliavo!. Infatti, ogni giorno si scopre che il mostro di turno è un avvocato, una maestra d’asilo o un carabiniere, un operaio ex-fidanzato, il salumiere sotto casa, un banchiere, una badante, un amministratore Pubblico, finanche un prete ecc. Uno di noi. Una persona che come le altre può sbagliare in quanto la nostra stessa natura regge sulla fallibilità umana; siamo quindi tutti a rischio. Pur rispettando le opinioni altrui, credo che nessun uomo sia un alieno, visto che partecipiamo tutti alla comune umanità, persino a quella più derelitta e sconfitta relegata in un carcere. C’è poi chi (più politicamente corretto) si ritiene, sì, simile a chi sbaglia (in quanto uomo) ma ribadendo di contro che il detenuto non è un suo simile; quindi, il detenuto non è un uomo o una persona…?!?

La verità, almeno la più diffusa oggi è che il carcere incarna un proiettore d’ombre, un mondo che non appartiene a nessuno, circondato da una terra di nessuno. Una specie di cortina fatta di barriere materiali e di ancor più insormontabili barriere psicologico-culturali. Nessuno vi vuol guardare dentro e ai pochi che intendono farlo, appare per lo più incomprensibile come per coloro che lo abitano. Questo perché non è una realtà trasparente ma un mondo sommerso che l’immaginario sociale popola di dannati, dove la coscienza collettiva ha paura di riconoscersi e allora, cerca di allontanarlo da sé, di rimuoverlo escludendolo, ghettizzandolo. Così, il carcere (con i suoi abitanti) diventa una struttura fuori dal mondo. Qualcuno ha detto: Il carcere riflette la società in cui viviamo, ma la società (per la maggiore) non lo riconosce come una sua parte. Tuttavia, eludere i problemi di certo non li risolve…

In effetti, ho scoperto sulla mia pelle quanto la società sia lontana dal conoscere e sapere cos’è il carcere e quali gli effetti della pena. Nondimeno, per quanto sia una realtà difficile da penetrare, accettare e capire, resta di certo utile conoscerla. Conoscere il carcere come azione sociale, in forma diretta, potendolo così guardare e giudicare per quello che nella sostanza è. Visto che, se pensiamo alla recidiva, la storia ci ha ormai abbondantemente insegnato di come la dimensione contenitiva del carcere non serva come difesa sociale. Ciononostante, quell’agglomerato umano non è una strada di non ritorno e il carcere può essere una realtà ben diversa. Una dimensione che seppur di colpa, ricerchi opportunità e crei occasioni per migliorarsi.

Personalmente, so di essere parte della società, in quanto da essa provengo e ad essa intendo tornare. Per questo, nonostante tutto, credo che il carcere sia società e appartenga alla stessa (o di certo così dovrebbe essere), in quanto esso ha un prima, un durante e un dopo. Un prima, dove l’individuo che commette il reato viene imprigionato, tolto dalla società; un durante, in cui quel soggetto dovrà vivere e non sopravvivere regredendo; un dopo, perché quella persona ritornerà alla società libera di cui è parte. Pertanto, dato che come altri dal carcere tornerò nella società, ritengo che non possa esserci separatezza, estraneità per la quale la società si senta esentata dal prendere concretamente in considerazione la realtà carceraria.

Perché dal carcere (quasi) tutti prima o poi escono: ma quali persone usciranno? Questa è la domanda che la società dovrebbe porsi e per la quale non dovrebbe permettersi di non sentirsi chiamata in causa, orfana della consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò che avviene dentro un carcere. Volenti o non, esiste un dopo che per essere positivo necessita di un durante solidale costruttivo e non indifferente. La società non può chiamarsi fuori (senza aspettarsi deleteri risultati), considerando quel perimetro un corpo morto a lei estraneo; considerato soprattutto che spesso è la stessa (società) purtroppo che con i suoi squilibri e disvalori, le sue ingiustizie e iniquità sociali ne partorisce le trasgressioni e le correlate devianze, che poi alimentano la condizione del sovraffollamento.

A me, persona detenuta, è chiesto di lavorare interiormente per sostenere un cambiamento e passare da quei modelli negativi che hanno prodotto la mia catastrofe, a punti di riferimento certi. Eppure fuori, tra gli uomini liberi di cui intendo tornare a far parte, mi rendo conto che i modelli “per bene” non sono poi così moralmente forti. Parlo di quei modelli “del branco” (anche tra persone adulte), del “traguardo a tutti i costi”, della “competitività che annulla l’altro”, dell’irremovibile individualismo, arrivismo e razzismo sociale ancor prima che razziale, ecc. Il carcere certo è pieno di tutto, come di persone dalla bassa levatura morale pronte ad “avvelenare” il prossimo suo senza apparenti ragioni né riguardi. Ma, “paradossalmente” è anche vero che capita di trovare più umanità, empatia e solidarietà tra queste mura, tra dannati piuttosto che nel mondo esterno. E allora forse, con estrema umiltà, anche dall’interno di una cella può nascere una riflessione che conduca a un’ipotesi di lavoro su cui tutti potremmo impegnarci…

Ciò che serve è una vera azione sociale, che inneschi un auspicato ripensamento culturale e alimenti attenzione solidale tra società e carcere. Quella che si evoca non è una richiesta-offerta di tolleranza, di filantropismo, di perdono elargiti a buon mercato, che riduca tutto a buoni sentimenti o a mere forme di assistenzialismo che per quanto apprezzabili, se fini a sé stessi risultano sterili. La solidarietà richiamata dal carcere è la stessa che s’innalza silenziosa dalle periferie, dalle città, dal mondo a cui dobbiamo dare un senso. Una solidarietà attiva, mossa da valori per cui non esiste solamente il mio orticello e che comporta mettersi nei panni degli altri, persino di chi ha sbagliato. Un progetto che parta da continui contatti e rapporti ripetuti con la società esterna. Un’interazione tra entità che collaborano alla creazione di iniziative che coinvolgano tutti, nessuno escluso. Un percorso da consolidare fiduciosi dove ricercare momenti di confronto nelle attività personali e collettive; per poter crescere e costruire nuove gestualità in comune.

Un esempio di solidarietà fatta di gesti concreti e atti vissuti, anzi, convissuti con gli altri. Perché quando s’intrecciano relazioni significative, l’esperienza collettiva assume significati positivi e allora, il delitto sarebbe mettere un limite al potenziale umano, a quell’umanità che vuol tornare a far parte della società di cui tutti ci sentiamo parte e alla quale si vorrebbe poter dare quanto è nelle proprie capacità. Questa è la visione con cui poter rispondere alle attese e alle richieste della comunità tutta, riuscendo “insieme” a sostituire le parole misconoscenza e paura, con le parole consapevolezza e comprensione. In questo recondito altrove senza tempo, ciò che mi tiene desto è l’energia prodotta dal mio fuoco interiore, alimentato dalla speranza… Speranza di assistere ad un’elevazione collettiva, che induca a riflettere su alcune verità e sui molteplici legami necessari per rendersi solidale verso il carcere. Perché il problema della Giustizia, del carcere riguarda tutti e tocca tutti da vicino in un modo o nell’altro. A tal punto che farsene carico non è (come detto) una questione di pura pietà o altruismo, bensì di un vero e proprio interesse collettivo.

a cura di Rossella Grasso

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