“S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo: d’ambo i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren”. Se si leggesse questa edizione della COP28 solo attraverso gli occhiali delle kermesse onusiane potremmo dedicarci all’approfondimento, per altro doveroso, delle negoziazioni su come combattere la crisi climatica. Prima, però, vorrei parlarne in una chiave più strettamente regionale, o meglio, di competizione regionale. È per questo che allo squillo dell’EXPO2030 assegnato a Riyadh, tra gli svenevoli e imbarazzanti commenti della nostra classe politica sonfitta senza appello, e il Qatar che si è ritagliato il ruolo di mediatore nella crisi di Gaza, rispondono, proprio da quella che fu la sede dell’EXPO2020, gli Emirati Arabi Uniti.

Il dibattito sul clima

Se Mohamed Bin Salman candida il prossimo EXPO2030 a essere la vetrina e l’incubatore di ogni innovazione e trasformazione tecnologica immaginabile, Mohamed Bin Zayed si pone, da paese produttore di idrocarburi, al centro del dibattito mondiale sul clima, ottenendo già a metà dell’evento di Dubai alcuni risultati che potranno esportare l’immagine dei sette emirati.
Già prima che iniziasse ufficialmente la COP28, il presidente Sultan Al Jaber, che è anche ministro del petrolio degli Emirati, annunciava la dotazione di un fondo “Loss and Damage”, da destinare ai paesi colpiti da eventi climatici straordinari, ovviamente nel sud del mondo.

I primi 100 milioni di dollari sono stati messi proprio dallo Stato ospitante, l’Italia ha rilanciato con 100 milioni di euro, mentre più freddi sono stati altri paesi, a partire dai 17 milioni dell’amministrazione USA, che compongono giusto una base di raccolta che, come hanno detto vari leader, tra i quali l’applauditissimo Lula, non sono certo da considerare come una compensazione per l’inquinamento di un secolo dei paesi occidentali. È giusto ricordare che il totale degli investimenti pro clima assommerà a decine di miliardi di euro, sia per investimenti diretti, come nel caso degli Usa, che per la leva finanziaria proposta da fondi ad hoc, come quello emiratino, concentrato a promuovere l’installazione di solare ed eolico in paesi del Sud e in particolare in India. L’altro successo che si può ascrivere all’UAE, che ha festeggiato la propria festa nazionale all’inaugurazione della Conferenza, è quello di aver dimostrato agli occhi del mondo che un paese produttore di petrolio e gas può chiedere che siano fatti sforzi senza precedenti per contrastare la crisi climatica.

Triplicare le rinnovabili entro il 2030. L’idea nucleare

La sintesi del ragionamento di Al Jaber è riproposta pari pari da Ursula van der Leyen, presidente della Commissione Europea, e da John Kerry, delegato di Biden nelle negoziazioni: triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. Magari si riuscisse!
A differenza dell’insanabile scontro sul gas come vettore di transizione energetica, che praticamente monopolizzò la discussione nella COP27 a Sharm el-Sheikh, qui si è bypassato il tema del mezzo e si è puntato tutto sull’obiettivo, con un nuovo protagonista del dibattito, anche se da tempo stava aspettando sornione il suo momento: il nucleare. Sì, perché nella richiesta di triplicazione della produzione di energia rinnovabile è entrato con inaudita potenza il tema della produzione da fissione, al punto che già 22 paesi, con Francia e Stati Uniti in cima, hanno già firmato un accordo per triplicare la produzione di energia nucleare, rispetto a quella del 2020, entro il 2050.

E a spingere sono proprio paesi di nuova installazione, come l’UAE, che hanno già prodotto tre reattori e stanno completandone un quarto in tempi rapidissimi (rispetto a quelli cui siamo abituati dalle nostre parti), o come la Francia che, dall’alto del suo 78% di energia prodotta dal nucleare, vuole mantenere il suo apparato energetico e legittimarlo agli occhi del mondo, visto che gli ambientalisti più integralisti non sono disposti a cedere sul fatto che il nucleare possa diventare una fonte assimilabile alle rinnovabili.

Le considerazioni degli ambientalisti, a stretto rigor di logica, sono corrette, poiché la produzione di scorie e il consumo di risorse minerali non sono “rinnovabili”, ma qui si sta parlando di far diminuire drasticamente la produzione di CO2 in tempi brevissimi e con costi sostenibili dalle comunità. Gli impianti idroelettrici, solari ed eolici, anche per produrre idrogeno e ammoniaca verdi, rimangono la scelta più iimmediata. Come, in misura minore, lo è la produzione da biofuel, molto spinta dalla presidente Meloni, che rimane uno strumento di transizione a medio termine. Eppure non c’è dubbio che il nucleare, in particolare la quarta generazione, che sarà più efficiente, più sicura e con minori scorie, per non parlare della produzione da fusione, una rivoluzione planetaria, possa e debba essere una delle fonti primarie per il futuro.

La cooperazione energetica

Il tema da affrontare sono i tempi e quella che sempre di più dovrà diventare la cooperazione energetica. Se è vero, infatti, che ci sono enormi disparità tra i paesi, tanto nella produzione di fossili che in quella di rinnovabili o di nucleare, così come ve ne sono nel consumo asimmetrico dovuto ai diversi stili di vita, è anche vero che la cooperazione, quella vera, energetica dovrebbe diventare il primo obiettivo non solo di una conferenza e dei paesi che vi partecipano, ma di tutto il movimento globale contro la crisi climatica. Lo abbiamo visto con la pandemia prima, poi con la guerra d’aggressione in Ucraina e oggi con le tensioni politiche nel Medio Oriente: siamo maledettamente interdipendenti! Se ci fosse una reale cooperazione energetica in Ue, tanto per cominciare, potremmo ragionare su quali interventi fare per ottimizzare la rete, rendere più economici gli stoccaggi, far diminuire i costi dell’energia e, quindi, essere più sicuri, non solo energeticamente.

O se si costituisse una Comunità Economica delle Energie Rinnovabili del Mediterraneo, così come pensò Robert Schumann nel proporre la CECA, quanti e quali costi, umani ed economici, verrebbero abbattuti. Ma questo spirito di comunità è difficile da rintracciare in questa sede e non parlo solo della comprensibile ritrosia degli Stati parte a condividere più di tanto le loro scelte. Anche i delegati, non solo quelli governativi, sembrano interessati solo al loro particolare, alla loro piccola o grande organizzazione.

E pensare che la perfetta organizzazione fatta dagli Emirati avrebbe potuto essere al servizio di una maggiore interlocuzione e, magari se l’ONU si fosse posto il problema, una meno dispersiva frammentazione di eventi, partecipati il più delle volte, da quelli che già sanno di cosa si sta parlando. Una notevole eccezione è costituita dal padiglione “Fede e Clima”, dove si stanno svolgendo una serie di interessanti confronti tra esponenti di diverse confessioni, un multiculturalismo e un dialogo interreligioso, sulla scorta delle stesse considerazioni di Papa Francesco, che fa ben sperare in questo momento in cui tutto appare buio, offuscato dagli oscurantismi e dai fondamentalismi. Speriamo bene.