Il significato politico del ballottaggio di domenica? È anzitutto quello di non aver il significato politico che gli conferisce chi, con troppa fretta, interpreta il voto come una precisa indicazione strategica in vista delle prossime elezioni del 2023. Fa certamente bene Letta a rimarcare il successo del Pd e dei suoi camaleontici alleati nei sette capoluoghi. Sbaglia però a leggere i molto positivi risultati delle urne (Verona che festeggia cantando “Bella ciao” è qualcosa di simbolicamente impagabile) proiettandoli ben oltre il dato specificamente amministrativo.

La crescita dell’astensionismo (la vera indicazione politica di domenica esce del tutto nitida: un sistema che tende a coincidere con le abitudini di partecipazione dei ceti più scolarizzati e socialmente garantiti), le divisioni della destra alle prese con le rivalità del personale locale costretto a schierarsi nella guerra di successione tra Salvini e Meloni, il maggiore spirito civico di un centrosinistra che vanta ancora residuali attitudini alla mobilitazione, hanno determinato l’esito della prova. Se, come sembra ineluttabile, la legge elettorale rimarrà quella attuale, allora il Pd farebbe bene a interrompere l’euforia del giorno di festa. Bisogna dimenticare presto il ballottaggio non solo perché il trionfo generalizzato, dal Veneto alla Calabria, induce a cantare vittoria troppo in anticipo, diffondendo una euforia ingiustificata che di solito si paga con la sorpresa nel conteggio del consenso reale, ma perché il vero rapporto politico esistente tra le forze in campo si coglie soltanto nella distribuzione delle preferenze di voto verificatasi al primo turno. Il ballottaggio è solo un gioco gratificante per i tanti municipi espugnati, ma non sprigiona alcun indicatore ermeneutico utile per cogliere la sussistente dislocazione delle opinioni e affinare le offerte elettorali più adeguate.

Se il primo turno è il fondamento, che bisogna assumere come base delle dinamiche delle forze e come asse di una strategia competitiva per spostare gli equilibri, nell’intervista a Daniela Preziosi su Domani il segretario del Pd dimostra di camminare ancora nella indeterminatezza. Esita a scegliere, con gli adattamenti del caso naturalmente, tra una soluzione alla Macron (convergenza nel segno di una cultura liberaldemocratica a presidio degli innumerevoli “centri”) e una linea alla Mélenchon (ma con il tribuno rosso non c’era anche il Ps, che almeno in teoria dovrebbe appartenere alla stessa famiglia politica europea di Letta?). Ad inoltrarsi definitivamente lungo una prospettiva alla Macron, il Pd è sollecitato dallo sfaldamento incontenibile dei grillini e dalla convergenza centripeta che, nei territori e nelle rappresentanze elettive, si profila come effetto del celere sostituirsi della bonaccia trasformista alla sopita rivolta populista. Un rassemblement delle élite più responsabili, in grado di consolidare i contatti internazionali ed arginare le spinte sovraniste in ripiegamento, può confidare nel soccorso della evidente contrazione della partecipazione elettorale. In tal senso, non risulterebbe difficile allestire una competitiva coalizione tecno-populista rivolta ai ceti più garantiti e in grado di eliminare, nelle urne che rimangono aperte di fatto solo per i cittadini privilegiati, la spiacevole voce dissonante dei portatori del disagio sociale.

Per una alchimia elettorale ispirata all’operazione di Mélenchon il Pd non avrebbe le corde retoriche né la vocazione ideale. Non dispone di categorie vagamente socialiste, non organizza un sentimento di giustizia sociale e, sulla guerra e il ruolo della Nato, guida il fronte intransigente di chi incita alla prova del sangue fino all’ultima traccia della resistenza. Proprio dalla frattura che da mesi i sondaggi segnalano, tra una costante propensione pacifista dei cittadini, che sollecitano la politica del negoziato e l’interruzione dell’invio di armi e delle sanzioni, e una sordità del governo, che si appresta ad ammettere con formule semanticamente ambigue la condizione di cobelligeranza, potrebbero scaturire le complicazioni destinate ad incidere profondamente nel voto per il rinnovo del Parlamento. La festa appena cominciata a Catanzaro e Piacenza potrebbe essere interrotta dal rumore delle bombe e dai costi insostenibili dell’economia di guerra.