Il voto amministrativo conferma una evidente supremazia della destra, intesa come coalizione eterogenea ma sperimentata negli anni, che consolida il primato anche in vecchie roccaforti rosse come Genova, La Spezia, Pistoia. Il grado di competizione interna tra gli orfani di Berlusconi per conquistare la leadership è sempre più elevato, ma la fedeltà coalizionale dell’elettorato rimane assoluta, al di là delle discordie locali che hanno visto affiorare candidature rivali, come a Verona. La prova del “campo largo” non palesa invece la stessa compattezza per via dell’inclinazione del vecchio mondo grillino a disertare le urne o a dividersi equamente tra i vari schieramenti in lizza.

Per questo pare eccessivo il tono celebrativo che nel Pd è prevalso a scrutinio completato per rivendicare la raggiunta (e di per sé poco rilevante, visto l’appannamento dell’alleato grillino come tribuno degli esclusi del Mezzogiorno) supremazia come partito. Il Nazareno tiene nel voto cittadino perché è riconosciuto come la più coerente incarnazione dell’establishment, che saldamente si colloca in una posizione bellicista e non si lascia confondere dalle preoccupazioni liberal-garantiste che serpeggiavano nel referendum. Come segretario di un riconoscibile partito d’ordine, Letta spera in una convergenza elettorale con le forze di Azione e Italia Viva, con le quali cresce l’affinità entro una comune ispirazione di centro moderato, e con le truppe del M5S reclutabili non per una progettualità politica ma in nome di un (già calendiano) “fronte repubblicano” necessario per il contenimento del pericolo della destra.

Ottenuto lo sdoganamento dai poteri mediatici per l’inchino alle procure e la fedeltà alle divise dell’atlantismo, Giorgia Meloni in effetti dilapida la legittimazione corale appena ricevuta con un volo in Spagna concepito per scaldare i camerati con toni, immagini e parole (“Sì a la familia natural, no a los lobbies Lgbt”) di segno nostalgico-autoritario. Con una classe dirigente evanescente, un radicamento territoriale incerto, soprattutto nel profondo Nord divenuto fresca terra di conquista, una cultura politica densa di equivoci per il nitido riflesso illiberale, è difficile immaginare per la “patriota” una conquista tranquilla della leadership. L’asse Berlusconi-Salvini (con sintonie evidenti sulla giustizia e sull’opposizione alla guerra) farà di tutto (oscuramento mediatico, prove di lancio di una figura di mediazione credibile per la guida del governo) per impedire che la sfumatura di nero dia un’impronta indelebile alla coalizione accompagnandola così alla sconfitta proprio sul filo di lana (o dopo le feste, per le reazioni economico-internazionali all’affronto di Meloni a Palazzo Chigi).

Se davvero Salvini vuole rimescolare le carte, scommettendo sulle conseguenze sociali presumibilmente nefaste del conflitto in Ucraina, allora non deve aspettare il 18 settembre per puntare i piedi, già il 21 giugno ha a disposizione l’opportunità di guidare la rivolta contro le scelte del governo che preparano una pesante esperienza di economia di guerra. Se alle parole forti relative ai rischi di recessione e inflazione non unisce una scelta parlamentare coerente prima dei riti di Pontida, la sua immagine è destinata al declino, malgrado abbia comunque regalato ai leghisti la non disprezzabile dote stimata attorno al 15% dei consensi. Anche Conte (la cui carta principale sembra quella di confidare nella incontenibile nostalgia per i tempi andati dell’avvocato del popolo a Palazzo Chigi) ha lo stesso problema di alzare, a favore delle telecamere, il dito contro il terzo invio di armi distruttive e poi di abbassarlo in fretta in Aula al momento delle scelte.

Lo stesso discorso vale per le residue sigle della sinistra, che ai distinguo maturati sul piano dell’analisi del fenomeno bellico non fanno seguire una iniziativa parlamentare e di massa per costruire un movimento per la pace e la soluzione politica dell’emergenza ucraina. Neppure la questione sociale legata ai salari poveri produce una azione politica per la ricostruzione della sinistra. La fortuna del Pd, del resto, è proprio quella di poter giocare, con una certa tranquillità, il ruolo del partito dei borghesi benestanti, riferimento sicuro delle fasce di società scolarizzate e nel complesso poco colpite dai rovesci dell’economia di guerra. L’elevata astensione, con la fuga senza fine dei ceti popolari dal voto, garantisce al Nazareno percentuali rassicuranti di consenso (misurato sui votanti, non sugli aventi diritto).

La contesa tra una destra che ha un popolo, e però non dispone di élite credibili, e un polo progressista che esibisce élite relativamente più spendibili, ma non può rivendicare dei solidi referenti di popolo, non dovrebbe consegnare sorprese. La sola arma segreta che il Pd è capace di spolverare nei momenti critici è quella dell’ingresso in campo delle sue minoranze esperte, e dai più frequenti legami con i potentati europei, che dirigono le operazioni nel segno dell’emergenza infinita che reclama, dopo la scomposizione trasformistica della coalizione avversaria, un governo responsabile. Trasformismo e populismo sono per questo diventate le manifestazioni endemiche della politica italiana, incapace di offrire risposte efficaci al lungo male di vivere della democrazia rappresentativa.