«A un Pd che si definisce sempre più come una forza centrista, ciò che manca non è un Movimento5Stelle rifiorito ma un ‘mélenchonismo’ di sinistra, spurio delle originarie tentazioni populiste e rappresentativo di quelle classi sociali ormai lasciate indietro, dall’economia e dai partiti». A sostenerlo è Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla prestigiosa Columbia University di New York. Quanto alla partita aperta nel centrodestra per la leadership, Urbinati annota: «Le amministrative del 12 giugno danno Fratelli d’Italia come portatori di voti ma sul territorio i candidati che vincono sono espressione, in maggioranza, di Lega e Forza Italia».

Fuori dal consueto e alquanto consunto rituale post-elettorale, quali sono, a suo avviso, i segni politici più marcati, in prospettiva delle legislative del 2023, del voto del 12 giugno?
Una premessa è d’obbligo. Le indicazioni generali che vengono da elezioni amministrative sono segnali da prendersi con le proverbiali pinze, perché sono molto legati alle specificità dei luoghi. È difficile, oltre che improprio, fare delle generalizzazioni. Detto questo, ha senso individuare i segnali che ci vengono.

E quali sono questi segnali?
Sono due, uno relativo al centro-destra, e l’altro al centro-sinistra. Il primo a me pare essere, ma è già una valutazione ampiamente condivisa, l’appannarsi della leadership populista, impersonata da qualche anno da Matteo Salvini. E l’emergere della leadership di Giorgia Meloni che non è populista ma organicamente di destra. Tuttavia è interessante osservare come Meloni non sia riuscita a fare bottino di candidati suoi a sindaco. La base istituzionale della rappresentanza resta in mano a Lega e Forza Italia mentre Giorgia Meloni è portatrice di consenso. A tutt’oggi, a questo consenso non corrisponde una classe di amministratori, di personale istituzionale. Questo non è un fatto di secondaria importanza, ci invita a capire perché Fratelli d’Italia esprima un personale politico molto ideologico e poco istituzionale, e anche poco competente e, come in alcune città già prima di queste elezioni, con problemi giudiziari non piccoli (non me ne vogliano gli antigiustizialisti, ma a volte la magistratura fa e deve fare il suo lavoro con i politici non meno che con i cittadini – la corruzione non è un’opinione). Tornando alla destra meloniana, si tratterebbe di capire perché la sua leadership amministrativa non ha tanto credito quanto quella dei suoi alleati. L’altro segnale è individuabile in quella che chiamerei la ‘fase sperimentale’ delle alleanze di centro-sinistra. Una fase sperimentale e non ancora sperimentata.

Perché?
Perché alcuni mutamenti sono in corso e non ancora attuati. In primo luogo a causa della debolezza ormai cronica dei 5Stelle. Per alcuni, coloro che hanno da sempre detestato il plebeismo di questo movimento non-partito, questa è un’ottima notizia; per altri è un grosso problema. È un grande sollievo per coloro che cercano di intercettare i voti di questo grande bacino di potenziali elettori. Sono davvero tanti voti in movimento, al Sud più che al Nord. Per altri, invece, è un grosso problema…

Chi sono gli “altri”?
Beh, il Pd in primis. Perché un alleato come i 5Stelle che fino a qualche tempo fa riusciva ad attrarre un numero ragguardevole di elettori, sembra evaporare. Non sappiamo se Giuseppe Conte riuscirà in questa che ha tutta l’aria d’essere un’impresa disperata. Qui si colloca la ‘fase sperimentale’ nel centro-sinistra…

Vale a dire?
Facciamo esempi per farci intendere meglio. Uso il caso che meglio conosco, quello di Piacenza. In questa città, persa dal Pd renziano alla destra, si andrà al ballottaggio e la coalizione intorno alla candidata del Pd è interessante, prima di tutto perché non solo senza ma anche contro i 5Stelle, i quali si sono legati ad un altro progetto elettorale, una colazione di forze e liste civiche di sinistra. Il Pd ha rotto i rapporti con queste forze ben prima di questi mesi elettorali, e dopo aver perso alla magistratura (accusa di corruzione) il leader originario. L’attuale leader e candidata del Pd ha impostato una campagna contro l’”estrema sinistra” – intendiamoci, non si tratta di terroristi o bombaroli, ma di cittadini molto normali e che lamentano una carenza cronica di associazionismo politico e di raccordo con le istituzioni.- Il Pd si è alleggerito della sua parte civica-di-sinistra e ha generato una coalizione ‘sperimentale’, accorpando cioè una lista civica di centro-destra insieme a Articolo 1, a Coraggiosa e ad Azione di Calenda. Il Pd ha compattato un’alleanza diciamo pure di movimenti di centro e di sinistra che in comune hanno il fatto di essere dentro le istituzioni: si tratta di sigle e politici che alla loro vocazione di sinistra (penso a Coraggiosa e Articolo 1) aggiungono il fatto importante di essere espressione di chi sta nelle istituzioni. I cittadini che provano a farsi protagonisti non piacciono neppure al Pd, e sono rubricati come indesiderati, come “estrema sinistra”. Dal centro molto centro ad una sinistra incardinata nelle istituzioni: questa sembra esse la ‘fase sperimentale’. Direi un ricompattamento di chi è nell’alveo istituzionale, tenendo a distanza chi sta fuori. In fondo, l’epoca dei 5Stelle, che sgangheratamente cercarono di esprimere una rivincita dei cittadini, è proprio finita! Ed è finita anche per loro responsabilità (che andrebbe studiata). Ora, che la candidata sindaca che andrà al ballottaggio in quel di Piacenza usi l’epiteto “estrema sinistra” per nominare coloro dai quali (il 10%) non vuole i voti la dice lunga sulla natura di questa ‘fase sperimentale’. Di estremo questi cittadini “ordinari” non hanno nulla, se non che…sono appunto non dentro la ‘politica politicata’ che appare sempre più come una professione per chi la occupa. “Estrema”: è un interessante uso del linguaggio, utilizzato anche per descrivere il fenomeno Mélenchon in Francia, rispetto a Macron. Ecco qua: il “macronismo” (Pd ed alleati istituzionali) tiene a distanza i “mélenchonisti”, un’area identificata come anti-istituzionale, appunto “estrema”. E questo potrebbe essere il futuro del centro-sinistra. E che questo sia l’esperimento, lo dimostrano le esternazioni, numerose in queste ore, di, non solo Calenda, ma anche Renzi e Boschi.

Lei ha fatto riferimento a Mèlenchon e quindi anche alla determinazione di uno spazio elettorale forte di una sinistra radicale in un Paese importante come la Francia. Perché invece in Italia il centrosinistra è sempre alla ricerca di un “papa” estero, che non ha nulla a che fare con una tradizione di sinistra?
Mélenchon non è una trovata mediatica. Lui è rappresentativo di un processo di mutamento che è partito cinque anni fa almeno come populista. A quei tempi usava lo stesso linguaggio dei populisti: noi contro loro. Ma gradualmente quel populismo della prima ora si è trasformato in qualcos’altro: un’aggregazione collettiva, un’associazione di varie forze, un’alleanza di sinistra (con dentro anche i resti del vecchio partito socialista). Oggi quello che si ritrova attorno a Mélenchon, è un’assemblaggio politico non più di tipo populista. Da noi abbiamo invece una sinistra dei mille rivoli, capace di sofisticate elucubrazioni e di dividersi senza posa: da Sinistra Italiana, a Rifondazione comunista, a Potere al popolo, ad Articolo 1 e via elencando con consensi vicini ai prefissi telefonici. Una produzione illimitata di sigle, incapaci di dar vita a un processo unitario non intorno alle dottrine (che sono morte e sepolte) ma ai problemi economici e sociali della parte popolare – dei molti, in poche parole, che non hanno rappresentanza. E questo è un problema. Perché il Pd si sta definendo sempre più in una posizione centrista mentre dovrebbe porsi il problema di avvicinare i cittadini scontenti. Ma in questo momento non sembra volerlo fare – perché altrimenti usare l’aggettivo “estremisti” per nominarli? Il rischio è enorme. A meno che non si scommetta su una larga astensione, perché più è l’astensione e più questi progetti possono attuarsi, in quanto chi si astiene è anche chi sente di non contare, di essere invisibile. Al contrario, se si vuole larga partecipazione al voto ci si deve preoccupare proprio di avvicinare quei frammenti di sinistra che non sono per nulla “estremisti”.

Una riflessione sui referendum. Il silenzio dei media, la disaffezione generale ai referendum, si è detto e scritto. Non è che il combinato disposto tra il non voto e il no al voto, racconta di una Italia dove il giustizialismo ha attecchito in profondità?
Probabilmente c’è anche questo. Però, c’è anche un altro fatto che riguarda lo strumento-referendum. Il referendum abrogativo è uno strumento fondamentale nelle mani dei cittadini, soprattutto per la protezione di diritti fondamentali – pensiamo al divorzio, all’aborto – sui quali si deve giustamente avere la voce dei diretti interessati. In questo caso, il referendum è un rifiuto del paternalismo: nessuno se non noi decidiamo sulla e della nostra vita (questo dovrebbe essere anche il caso della eutanasia e dell’uso di droghe leggere). La questione della giustizia è una questione “indiretta” rispetto ai diritti. Certo che è fondamentale avere una giustizia giusta, funzionante, imparziale, eguale per tutti. Ovvio che per tutti è un diritto. Ma la struttura del discorso sulla giustizia è molto complesso e non riducibile a un sì e no. In molti hanno visto in questo, a torto o a ragione, una strumentalizzazione da parte di partiti. È molto strano che a raccogliere le firme fossero i partiti! A farlo dovrebbero essere i cittadini e non coloro che stanno dentro le istituzioni. È evidente che i cittadini hanno avvertito un odore di manipolazione. D’altro canto, io difendo con convinzione la libertà di non andare a votare per i referendum abrogativi. Perché non è un voto “per” qualcuno. Il referendum è un vero potere sovrano e se c’è il quorum (e secondo me è importante che ci sia) il non andare è altrettanto potente quanto l’andare. Non funziona il gioco di identificazione dei due astensionismi. Sono ben diversi. Del resto si è visto che l’astensione ai referendum è stata molto più alta di quella registrata nel voto delle amministrative. I cittadini hanno distinto tra i due voti. È stata un’astensione potente, non un segno d’indifferenza, come si vorrebbe far credere, sbagliando completamente. Perché il quorum è condizione di potenza, non di mancanza di potere; di azione, non di indifferenza.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.