È stato molto abile Mélenchon ad inventare, per il voto del 12 giugno, il mito di un terzo turno presidenziale. Rompendo anche la stretta correttezza della lettera della Costituzione, che attribuisce all’Eliseo un potere assoluto sull’inquilino dell’Hôtel de Matignon, ha richiesto una sua elezione diretta a primo ministro per guastare i piani di trionfo coltivati da Macron con il partito personale del presidente. Si tratta, allora, di un populista che ricorre ai trucchi della comunicazione per drammatizzare il voto su dati, per giunta, illusori? Il magnifico settantenne continua ad essere, in realtà, il giovane trozkista che conserva nelle sue vene la cultura tradizionale della gauche francese. È un giacobino rosso che (proprio per questo non può essere il “Chavez francese”, come qualcuno lo definisce) invoca l’assemblea costituente per abbattere la monarchia repubblicana (seppellendo così il leaderismo carismatico, che piace tanto al populismo antagonista nello stile di Laclau) e passare ad una Sesta Repubblica finalmente democratica.

Quando Chantall Mouffe ha cercato di sedurlo con le formule linguistiche del populismo di sinistra, Mélenchon ha finto di meditare sui consigli semantici, rigettato però ogni suggestione per una locuzione, quella di populista, che in Francia aveva, sin dagli anni Cinquanta, una inclinazione marcatamente di destra. Quel termine compromesso in radice non faceva per lui anche perché aveva uno spazio politico enorme da occupare dopo il fallimento del Partito Socialista, con il fiasco di Hollande (il “presidente normale” all’Eliseo dopo la “telecrazia gollista” e “l’iperpresidente Sarkozy”). Il tribuno rosso ha compreso che il suo bacino elettorale non era nella destra populista che acclamava Le Pen (e alla quale pochi voti riesce a sottrarre, anche oggi), ma nella sinistra senza più rappresentanza politica. La sua stella sembrava in irrimediabile caduta dopo il crollo al 6% nelle elezioni europee, e invece Mélenchon ha saputo afferrare il nuovo treno delle presidenziali per giocare un ruolo importante nel sistema politico.

Domenica ha conquistato la maggioranza dei voti battendo, sia pure di un soffio, Macron. I dati di “Le Monde”, che etichettano correttamente i candidati in talune isole come legati al Nupes, sono leggermente diversi da quelli del Ministero dell’Interno (il sito web di Place Beauvau attribuisce alla maggioranza presidenziale il 25,75% e il 25,66% ai rossi di Nupes) ed assegnano alla coalizione della sinistra il 26,10% pari a 5.931.906 voti (con il primato in 194 collegi) e alla lista presidenziale “Ensemble!” il 25,81% pari a 5.867.165 voti (con un vantaggio in 203 collegi). Gli oppositori di Mélenchon, cercando di minimizzare il suo enorme risultato, trovano che in termini percentuali la sua coalizione si attesta sui medesimi livelli delle sinistre del 2017. I critici dimenticano però l’essenziale: nel 2017 le sinistre marciarono divise e quindi non riuscirono a catturare un bottino di seggi, mentre oggi, grazie alla iniziativa del tribuno rosso, le più diverse sigle, dai verdi ai comunisti, si sono alleate per prenotare un cospicuo numero di deputati.

Lo scopo dell’operazione di Mélenchon è proprio quello di dare un senso alla sinistra smarrita. Mette insieme le proteste e i diritti, la classe e il clima. Non cerca il voto di destra (trova stupidi i dibattiti sul divieto del burkini, ha il 70% dei voti musulmani e si rivolge ai fratelli dell’altra sponda del Mediterraneo). Rilancia i classici temi del linguaggio dimenticato della sinistra: 32 ore settimanali per i lavori usuranti, salario minimo di 1500 euro, l’1,5% del Pil destinato alla ricerca. Le vecchie categorie della sinistra (diritti dei lavoratori, no alla Nato, pace immediata in Ucraina con la gestione della crisi militare affidata all’Onu) penetrano con la forza del nuovo e dell’inusitato soprattutto nelle fasce giovanili (alle presidenziali un terzo dei votanti tra i 24 e i 35 anni ha scelto Mélenchon). Se non ci fosse stata una astensione giovanile così elevata (secondo le stime di Ipsos il 69% dei 18-24enni e il 71% dei 25-34enni si sono astenuti), il risultato della Nupes sarebbe stato ancora più esaltante.

Salvato dalla mobilitazione degli anziani (“solo” il 40% dei 60-69enni e il 31% dei 70enni e oltre non hanno votato), Macron è il primo presidente che non si giova in maniera significativa dell’effetto traino che scaturisce dalla conquista dell’Eliseo. Il sistema politico francese è diventato tripolare (il “Rassemblement national” resiste con il 18,67%, la destra gollista di LR-Udi invece scende all’11,31% e solo in 87 circoscrizioni accede al secondo turno) e i giochi parlamentari sono imprevedibili. Il secondo turno potrebbe vedere grandi manovre per creare un rapido “fronte anti-Mélenchon”. Il record delle astensioni (ha votato solo il 47,49% degli aventi diritto) ha sprigionato degli effetti speciali: solo 8 sono i collegi triangolari aperti a tre candidati che hanno incassato più del 12,5% degli elettori registrati.

Solo 5 sono gli eletti al primo turno, e anche gli 8 candidati che hanno raccolto più del 50% dei voti dovranno passare alla verifica del secondo turno (con il 54% raccolto nell’undicesima circoscrizione del Pas-de-Calais, Marine Le Pen deve ripresentarsi agli elettori, il povero deputato uscente della seconda circoscrizione di Seine-Saint-Denis, Stéphane Peu, con il 62,85% dei voti espressi deve ripetere anche lui il rito delle urne). Anche se non riuscisse a spezzare il cordone sanitario eretto contro il rosso, Mélenchon avrebbe comunque da festeggiare perché la “Nouvelle Union poulaire écologique et sociale” ha restituito vitalità alla sinistra frantumata e sommersa. I comunisti ottengono buoni risultati nello storico bastione rosso di Seine-Saint-Denis, conquistando la prima posizione nelle dodici circoscrizioni.

La Nupes sarà presente in più di 500 circoscrizioni al secondo turno e, anche nelle ipotesi più caute, il suo gruppo parlamentare (in verità saranno molteplici le sigle autonome dopo il voto) si annuncia cospicuo. Forse nessuno dei raggruppamenti avrà i 289 seggi necessari per la maggioranza e, esclusi i 50 deputati della Le Pen, per i quali è sempre rinviata la definitiva “dédiabolisation”, in aula i giochi saranno molto aperti. Nello stile dell’assemblearismo mediterraneo, si creeranno le più creative e variabili maggioranze. Il monarca repubblicano sarà costretto a convivere con i riti dell’aborrito parlamentarismo. La Sesta Repubblica invocata da Mélenchon deve essere solo ratificata con un passaggio formale.