Pressappoco in coincidenza con le elezioni locali in Italia – il 12 e 29 giugno – avranno luogo in Francia – il 12 e il 19 – le elezioni per i 577 seggi dell’Assemblée Nazionale, l’organo legislativo essenziale della 5a Repubblica francese (il Sénat, che non è scelto direttamente dai cittadini, non ha potere di veto sulle decisioni dell’Assemblée). In passato – e fino alla riforma costituzionale del 2000 – era accaduto tre volte che l’Assemblea esprimesse una maggioranza diversa da quella che aveva in precedenza scelto il Presidente della Repubblica. Questo poteva accadere perché il mandato presidenziale era di sette anni e quello parlamentare invece era di cinque.

I cittadini elettori, se non erano convinti delle scelte del presidente, potevano decidere a favore di una maggioranza diversa in occasione della elezione dell’Assemblea. Così, per due volte il presidente socialista Mitterrand dovette convivere con un primo ministro espressione della destra: Chirac (1986-88) e Balladur (1993-95). E un’altra Chirac, divenuto presidente a sua volta, dovette farlo con un primo ministro socialista, Jospin, per ben cinque anni (1997-2002). In caso di coabitazione, il sistema diventava a esecutivo dualista e la convenzione costituzionale aveva imposto al tempo stesso una politica di compromessi e il monopolio del presidente sulla politica estera – con qualche difficoltà nella gestione della politica europea. La riduzione del mandato presidenziale a cinque anni ha reso contemporanee le due elezioni: inoltre è stata fatta la scelta di calendarizzare le legislative sulla scia di quelle presidenziali.

Da allora il presidente ha sempre goduto di una sua maggioranza all’Assemblée – questa era d’altra parte una delle ragioni della modifica del mandato del presidente: l’ostilità ai compromessi. Per parte loro, gli elettori francesi dopo qualche settimana – la distanza tra le due consultazioni di voto – non sono ancora mai stati così volatili al punto di cambiare maggioranza. Una conseguenza dell’accorpamento delle due elezioni è stata però, nel corso degli anni, la caduta della partecipazione alle elezioni legislative. Dal 1997 (l’ultima volta in cui esisteva ancora il settennato presidenziale) al 2017 questa è passata dal 71% al 42%, 33 punti in meno, mentre quella alle presidenziali è calata di soli 5 punti dall’80% al 75% (nel 2017). Il parlamento controllato dal presidente ha perso di peso politico e, di conseguenza, le elezioni parlamentari mobilitano meno il corpo elettorale.

È difficile, più che per altri tipi di elezione, fare previsioni sulla futura composizione dell’assemblea, a seguito delle prossime elezioni. La formula elettorale è, come per le presidenziali, a doppio turno. Ma mentre per la scelta del presidente accedono al ballottaggio solo i due candidati giunti in testa al primo turno, nel caso delle elezioni legislative hanno diritto di accedere al secondo turno (se nessuno ha ottenuto al primo il 50% più uno dei voti validi) tutti i candidati che hanno ottenuto almeno il 12,5% dei voti degli aventi diritto. Dato il gran numero di astenuti, è necessario in realtà ottenere circa il 20% per accedervi. È possibile – dato il quadro politico presente, sul quale torniamo subito – che vi saranno più competizioni triangolari che nel 2017 quando ve ne era stata una sola. Le recenti elezioni presidenziali hanno fatto apparire una Francia nettamente divisa in tre parti. Alla tradizionale opposizione bipolare, che ha caratterizzato la vita politica francese dalla Rivoluzione in poi, si è sostituita una nuova frattura che si sovrappone e tende in parte ad eclissare quella precedente fra la destra e la sinistra dello schieramento.

Intorno alla persona di Emmanuel Macron si sono infatti raccolte tutte le forze moderate di destra e di sinistra, favorevoli all’economia di mercato e alla Unione Europea, mentre l’opposizione si è divisa in due tronconi, questi ultima espressione delle posizioni estreme di destra e di sinistra. Da un lato, la destra etno-nazionalista, da lungo tempo presente in Francia intorno al partito dinastico della famiglia Le Pen, alla quale si è aggiunto, ancora più a destra, il nuovo partito di Eric Zemmour. Dall’altro, l’alleanza intorno a Jean-Luc Mélenchon delle forze di sinistra ed ecologiste (NUPES) che rifiutano il centrismo di Macron. Mentre il partito socialista sembra definitivamente scomparso (caso unico oggi in Europa), assorbito dal macronismo per la sua componente moderata e dal radicalismo di Mélenchon per la residua parte, la destra tradizionale, che alle elezioni presidenziali è stata ridotta ai minimi termini (la candidata Pécresse, erede del gollismo, ha ottenuto il 4,7%), sembra poter sopravvivere grazie alla sua presenza sul territorio.

Di conseguenza, Macron quasi certamente manterrà la maggioranza alla Assemblea. Ma il gruppo in rappresentanza della sinistra radicale potrebbe essere nutrito e sia la destra tradizionale che il partito di Marine Le Pen dovrebbero poter ottenere una presenza in Parlamento, il primo minore rispetto all’ultima volta e invece il secondo maggiore. Questo dicono a pochi giorni dal primo turno i sondaggi sulle intenzioni di voto. Essi in realtà assegnano alla sinistra radicale al primo turno un numero di suffragi maggiore rispetto al centro di Macron. Tuttavia, sempre secondo i sondaggi, al secondo turno la distribuzione dei seggi sarebbe largamente favorevole alla maggioranza presidenziale, che potrebbe ottenere più di 300 deputati su 577.

Come mai questa differenza tra primo e secondo turno? Dipende dalla formula elettorale adottata oltralpe. I voti, infatti, non si traducono in seggi in misura proporzionale. In ciascun collegio uninominale conquista il seggio parlamentare il candidato che, in generale al secondo turno, ottiene più voti. Bisogna però tener presente il fatto che i 577 collegi non sono tutti omogenei. Il voto per Macron, come si è visto nelle elezioni presidenziali, è grosso modo ugualmente distribuito su tutto il territorio, mentre quello per la sinistra radicale è forte quasi solo nelle città e nelle periferie urbane. Di conseguenza, con meno voti, il centro macronista può ottenere più collegi. Se la formula elettorale fosse invece stata proporzionale, l’Assemblea, frantumata in tre parti, non potrebbe verosimilmente avere alcuna maggioranza e la Francia, divisa più o meno ugualmente in tre gruppi ostili, sarebbe semplicemente ingovernabile.

Certo, una maggioranza rappresentativa in Parlamento, che non è tuttavia una maggioranza nella società avrà molti problemi a governare un paese difficile come la Francia. Ma un governo che ha difficoltà è sperabilmente un po’ meglio di un governo del tutto impotente a governare. Le istituzioni e i sistemi elettorali non si traspongono da un paese all’altro come i circuiti integrati o le parti meccaniche. La comparazione dei sistemi istituzionali può però aiutare a riflettere sulle possibili riforme in Italia, purché si analizzino i contesti, le loro differenze e i reali risultati concreti delle istituzioni di paesi diversi dal nostro. La Francia è certamente più di altre una realtà politica per certi versi simile alla nostra. Ci sembra che valga la pena continuare a seguire da vicino la sua evoluzione.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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