Domenica prossima gli elettori francesi non eleggeranno solo il Presidente della Repubblica. Voteranno anche per il destino dell’Europa. E come nel 2005, quando respinsero per referendum il progetto di Costituzione europea, potrebbero invertirne l’indirizzo politico. Quella tra la Le Pen e Macron, infatti, è competizione non solo tra centro-destra e centro sinistra (e già la difficoltà ad inquadrarli entro tali categorie tradizionali dovrebbe far riflettere sulla capacità interpretativa di tale esclusiva chiave di lettura) ma anche quella, rispetto alla prima trasversale, tra nazionalismo ed europeismo. Ma se così è, vale la pena chiedersi se una simile posta in gioco possa essere conquistata attraverso un sistema semipresidenziale, quale quello francese, che – come osservato su queste colonne da Mannheimer e P. Pasquino lo scorso 15 aprile – tende a trasformare la maggiore minoranza in maggioranza.

Questo esito, se probabile – ma non certo – nelle elezioni legislative (dato che i collegi sono uninominali ed il secondo turno è aperto non ai primi due candidati ma a tutti quelli che ottengono almeno il 12,5% dei voti degli aventi diritto), è sicuro nelle elezioni presidenziali, dove il ballottaggio è ristretto ai primi due candidati del primo turno. In tal modo, la frammentazione politica in partenza (ben rappresentata dalla presentazione di ben dodici candidature) e l’assetto politico sostanzialmente tripolare (la sinistra di Mélenchon, la destra-centro della Le Pen e il centro/destra-sinistra di Macron) viene bipolarizzato nel turno di ballottaggio, da cui scaturisce il Presidente eletto. A ben riflettere, è lo stesso meccanismo previsto dall’Italicum che, in presenza di un analogo assetto tripolare (centro destra, centro sinistra e M5S), prevedeva un secondo turno di ballottaggio tra i primi due partiti al vincente del quale sarebbe andato il premio di maggioranza alla Camera, unica camera politica.

Il problema però che pone il semipresidenzialismo francese è però ora duplice. Innanzi tutto, proprio perché gli elettori, in forza del “voto utile” indotto dai sondaggi (profezia che si auto avvera?), hanno sùbito al primo turno scartato i candidati socialisti e repubblicani, si può ragionevolmente supporre che la loro forza politica sia stata di fatto sottorappresentata. Non è affatto detto, dunque, che essi non recuperino consensi e seggi nelle elezioni legislative, anche in virtù della loro forte presenza nei territori, testimoniata dal controllo di regioni e dipartimenti. Per sua natura, il secondo turno premia i partiti maggiori e penalizza i minori, ma non è certo che assicuri al partito di maggioranza relativa la maggioranza assoluta dei seggi in Assemblea. Questo si poteva verificare quando vi era la cosiddetta quadriglia bipolare, per cui al secondo turno i voti dei comunisti confluivano sui socialisti, e quelli dei liberali-centristi sui gollisti. Ciò si è verificato nelle elezioni del 1993 (con il centro destra passato dal 43% del primo turno al 58% del secondo, conquistando così ben l’84% dei seggi) del 2002 (centro destra dal 33 al 47% dei voti, grazie a cui ha ottenuto il 62% dei seggi), nel 2012 (centro sinistra dal 29 al 41% con il 48,5% dei seggi) e nel 2017 (En Marche dal 28,2 al 43,06% dei voti con il 53,4% seggi).

Oggi però il quadro politico è completamente cambiato. Il che aumenta la possibilità che il Presidente che sarà eletto domenica non abbia la maggioranza nell’Assemblea nazionale e quindi debba nominare come Primo ministro un esponente di un partito a lui avverso. Per evitare tale cosiddetta coabitazione (breve tra Mitterrand–Chirac 1986-1988 e Mitterrand-Balladur 1993-1995, lunga tra Chirac–Jospin 1997-2002) la Francia nel 2008 ha modificato la propria Costituzione riducendo il mandato presidenziale da 7 a 5 anni per allinearlo a quello della legislazione così da votare nel breve volgere di un paio di mesi, sia (prima) per il Presidente che (poi) per il Parlamento, confidando nel trascinamento dell’esito della prima elezione sulla seconda (cosiddetto effetto luna di miele). Nulla però ovviamente assicura che tale effetto trascinamento si realizzi e quindi che il Presidente abbia la maggioranza in Assemblea nazionale, tanto più in presenza di un quadro politico così frammentato. Tale possibile coabitazione, da taluni considerata positivamente quale elemento di equilibrio del sistema, da altri viene considerata negativamente per i rischi di continui contrasti tra le due “teste” dell’Esecutivo (Presidente della Repubblica e Primo ministro) peraltro nel caso francese acuiti dagli ampi poteri che il Presidente ha. Molti suoi atti, infatti, non devono essere controfirmati dal Primo Ministro (a partire dallo scioglimento delle Camere).

Inoltre egli può presiedere il Consiglio dei ministri e considera riservati al suo domaine réservé i poteri in materia di politica estera e difesa, a cominciare dalla scelta dei relativi Ministri (come dimostra l’attivismo di Macron in queste settimane sulla scena internazionale). Le difficoltà di coabitazione tra personalità ingombranti furono rappresentate plasticamente dalla imbarazzante compresenza di Chirac e Jospin, nella rispettiva veste di Capo dello Stato e di Primo ministro, negli incontri internazionali. Tale coabitazione sarebbe oltremodo difficile se venisse eletta la Le Pen. E qui tocchiamo il secondo aspetto del problema. Come detto all’inizio, nessuno può ragionevolmente negare che l’elezione della Le Pen infliggerebbe un colpo, quasi mortale, all’Unione europea come comunità sovranazionale governata dal metodo comunitario. L’idea gollista del Presidente quale rassembleur al di sopra delle parti che “garantisce il rispetto della Costituzione” la lasciamo volentieri a chi crede ancora alle retoriche dichiarazioni serali del vincitore che vuole essere il “Presidente di tutti”. Di fatto il nuovo Presidente è e sarà il vertice dell’esecutivo eletto per realizzare il proprio programma politico.

Un programma politico che, nel caso della Le Pen, nasce dalle profonde fratture che percorrono la società francese non per superarle in senso inclusivo ma per in certo senso aggravarle tramite scelte di parte: una concezione ancor più escludente e negativa della laicità dello Stato, con il conseguente divieto del velo perché considerato uniforme islamista anziché simbolo religioso; il populismo che contrappone la Francia rurale e genuina alla Parigi dei potentati economico-finanziari; la collocazione internazionale della Francia nella risorta logica dei blocchi contrapposti causata dalla guerra ucraina (con gli inquietanti prestiti che Le Pen ha ricevuto dalla Russia per la sua campagna elettorale); infine, da ultimo ma non per ultimo, giustappunto il destino dell’Europa, con il ritorno a logiche sovraniste e nazionaliste che segnerebbero a voler essere ottimisti quantomeno una battuta d’arresto nel processo d’integrazione europeo.

Di fronte a tale scenario, confidare nel “fronte repubblicano” che permise vent’anni fa a Chirac di sconfiggere Le Pen (padre) agevolmente (82,2 contro 17,8) è un azzardo storico, visto che oggi esso è sempre più debole, a destra come a sinistra. Forse vale la pena allora chiedersi se un sistema come quello semipresidenziale a preminenza del Presidente, non finisca per acuire, anziché superare, le profonde fratture esistenti nel sistema politico e sociale francese (e non solo), radicalizzandole e così rischiando di spaccare il Paese proprio quando esso avrebbe bisogno piuttosto di essere “rammendato”.