Nel perenne dibattito sulle riforme istituzionali, la travagliata (ri)elezione di Mattarella ha rilanciato la proposta di elezione diretta del Presidente della Repubblica e, di conseguenza, la trasformazione della nostra forma di governo da parlamentare a semipresidenziale. Opposte ma alla fine convergenti le motivazioni in tal senso. Da un lato chi ritiene che tale elezione diretta non avrebbe necessariamente conseguenze di tipo presidenzialista, con la prevalenza del Presidente sul Primo ministro. Come avviene in molti paesi europei (Austria, Irlanda, Islanda, Finlandia, Portogallo, Stati ex socialisti dell’Est) il Presidente, benché eletto direttamente, continuerebbe ad avere un ruolo di garanzia, marginale rispetto al rapporto tra Parlamento e Primo ministro in cui continuerebbe a concentrarsi il potere d’indirizzo politico.

In quei paesi, infatti, la carica di Presidente è ricoperta da personalità politiche di secondo piano mentre è il Primo ministro il vero leader della maggioranza. Secondo costoro, dunque, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, pur partecipe del potere esecutivo, determinerebbe un sistema sì semipresidenziale ma a tendenza comunque parlamentare. Dall’altro lato, invece, chi ritiene che l’elezione diretta del Presidente della Repubblica trasformerebbe il nostro sistema in semipresidenziale a tendenza però presidenziale, come in Francia, dove il Presidente è il vero leader della maggioranza. È lui, infatti, che determina l’indirizzo politico, cumulando in sé i poteri del Presidente degli Stati Uniti, dato che la sua durata è fissa e non revocabile, e del Premier inglese, perché in grado di controllare la maggioranza parlamentare, tanto più da quando i francesi eleggono Presidente e Parlamento a distanza di poche settimane per evitare che siano espressione di maggioranze politiche diverse (c.d. coabitazione).

Tra queste due tendenze (parlamentare e presidenziale), è proprio quest’ultima che con tutta probabilità si realizzerebbe nel nostro Paese. Ciò per tre motivi. Innanzi tutto per i poteri che già oggi la Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica. Ispirandosi al modello del Sovrano statutario, i nostri costituenti hanno delineato per il Capo dello Stato un ruolo non meramente onorifico e decorativo, dotandolo di rilevantissime attribuzioni in relazione a tutti e tre i poteri: il rinvio delle leggi approvate dal Parlamento; l’emanazione dei decreti legge e dei decreti legislativi del Governo; la nomina di un terzo dei giudici della Corte costituzionale; il potere di grazia e di commutazione delle pene; la presidenza del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio supremo di difesa. Ma soprattutto due poteri che di solito nei sistemi parlamentari, non spettano al Capo dello Stato: la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri e lo scioglimento delle Camere. Una volta eletto direttamente, il Presidente della Repubblica eserciterebbe tali poteri non più a fini di controllo e di garanzia, come finora accaduto, ma in chiave politica, in forza della legittimazione elettorale ricevuta. Tutti quegli atti oggi formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi diverrebbero formalmente e sostanzialmente presidenziali.

Da qui il secondo motivo. Mi pare evidente, infatti, che, proprio in ragione dei rilevanti poteri attribuiti, in caso di elezione diretta le forze politiche (anche coalizzate) non candiderebbero figure di secondo piano ma i loro leader, dando quindi alla carica una inevitabile coloritura politica assolutamente incompatibile con il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale. Avremmo, insomma, un Presidente di parte, e non di tutti, eletto sulla base di un programma politico dopo una dura e aspra campagna elettorale condotta contro gli altri candidati, esattamente come avviene in Francia, dove l’elezione diretta del Presidente è stata introdotta nel 1962 proprio per rimediare alla debolezza del sistema politico ed indurlo a bipolarizzarsi. Pensare che dalle nostre parti un Presidente eletto possa continuare a rappresentare l’intera comunità nazionale è frutto di una retorica illusione.

E siamo dunque al terzo motivo. In un quadro politico così frammentato e instabile, l’elezione diretta del Presidente non farebbe altro che istituzionalizzare quella tendenza che ha visto in questi ultimi anni accrescere il potere d’intervento del Presidente per risolvere le crisi di un sistema parlamentare sempre più incapace di decidere a causa della sua debole razionalizzazione. Difatti, nell’ambito dell’esercizio delle sue attribuzioni costituzionali, il ruolo del Capo dello Stato varia in base non solo alla personalità politica ed al carattere del titolare (essendo l’unica carica monocratica) ma anche al contesto politico: se stabile, egli tende ad avere un ruolo marginale; se instabile, invece, tende ad espandere i propri poteri fino talora a svolgere una funzione di supplenza, ponendosi come «reggitore dello Stato nei momenti di crisi del sistema» (Esposito). È la fortunatissima immagine, coniata dall’attuale Presidente della Corte costituzionale Amato, della fisarmonica che si “apre” e si “chiude” a seconda del momentum. Per questo nel costituzionalismo francese, meno avvezzo del nostro ad erigere steccati tra diritto costituzionale e scienza della politica, da tempo si parla dell’Italia come di una “forma parlamentare con correttivo presidenziale” (Lauvaux e Le Divellec).

Mi pare evidente dunque che un Presidente della Repubblica eletto trasformerebbe la nostra forma di governo in senso pienamente semipresidenziale, spostando su tale carica il baricentro del sistema politico. È uno sbocco auspicabile? Senza volere – e potere – qui ripercorre il dibattito trentennale su quale carica – tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio – vada rafforzata, e premesso che entrambe le soluzioni (semipresidenzialismo o premierato) conservano una loro efficacia (tanto più se paragonate al contesto attuale ed a quello che temiamo si aprirà dopo le prossime elezioni), forse vale la pena chiedersi se, in un contesto politico che è stato sempre caratterizzato da profonde fratture politiche ed in tessuto sociale sempre più lacerato, sia auspicabile e opportuno rinunciare definitivamente a quella risorsa istituzionale, a quel “motore di riserva”, a quel simbolo di unità, a quell’organo di moderazione e di stimolo che, seppure con alterne vicende, il Presidente della Repubblica ha rappresentato nel nostro paese e di cui il bellissimo discorso pronunciato ieri nonché la stima, l’affetto ed il senso di riconoscenza con cui gli italiani hanno salutato la rielezione di Mattarella (come i sondaggi dimostrano) costituiscono inequivocabile riprova.