1. Guardare alla Costituzione. Contrapporre alla miopia della politica lo sguardo lungo del testo costituzionale. È la cosa giusta da fare in vista dell’imminente elezione presidenziale cui i partiti si avvicinano alla cieca e in ordine sparso. Eppure, nessuno alza lo sguardo. Anzi, nel dibattito pubblico le regole costituzionali per scegliere l’inquilino del Quirinale sono neglette, bollate di autoreferenzialità (non essendo un’elezione popolare diretta), opacità (per assenza di candidature ufficiali), misticismo (i grandi elettori votano come cardinali in conclave), subordinazione ai partiti (e alle loro indecifrabili alchimie). È vero il contrario. Quelle regole ci dicono tutto, sia del profilo che dovrà avere il prescelto sia del modo per individuarlo. Compongono una trama già scritta che i grandi elettori sono chiamati doverosamente a interpretare, senza improvvisazioni fuori copione.

2. Così è per il tipo d’investitura. Elegge il Capo dello Stato il Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali. La loro è una presenza non determinante perché sproporzionatamente bassa rispetto agli altri parlamentari (58 su 1009). Tuttavia è qualitativamente significativa, esprimendo la derivazione del potere presidenziale dall’intera comunità nazionale: l’elezione del Presidente della Repubblica, dunque, non è affare “loro” (lo Stato-apparato) perché è affare di tutto il Paese (lo Stato-società). Nessuna autoreferenzialità. La scelta di un’elezione indiretta è coerente con la geografi a della nostra forma di governo parlamentare, e non presidenziale o semi-presidenziale. E poiché il collegio elettorale non coincide con le sedi della rappresentanza politica (Camera e Senato), esso non può né determinare né condizionare i fi ni che il Presidente eletto dovrà perseguire.

3. Non esistono candidature (o autocandidature) legali: i grandi elettori possono votare chiunque (purchè cittadino italiano, cinquantenne, titolare dei diritti civili e politici). Nessuna opacità in tale regola. Le candidature non si ufficializzano né si discutono per evitare una concorrenza aperta tra soggetti altrimenti costretti a politicizzare la propria elezione in una campagna elettorale dove differenziarsi sul piano programmatico. Ma il solo “programma” del Presidente eletto è la Costituzione, di cui sarà custode super partes. Potranno esserci, invece, candidature ufficiose proposte in via informale dai partiti o emerse nel corso degli scrutini. Ma, egualmente, su di esse non è consentito alcun dibattito in seno al collegio elettorale, così da rendere impossibile collegare il nuovo Presidente a un qualsiasi indirizzo politico. Il Parlamento in seduta comune, infatti, è stato convocato il 24 gennaio solo per la «elezione del Presidente della Repubblica»: sede meramente elettorale, è costituzionalmente vietato trasformarla in arengo politico.

4. Ad assicurare la più ampia legittimazione possibile provvedono i quorum richiesti: la maggioranza qualificata o, dal quarto scrutinio, assoluta impediscono che il “proprio” candidato sia imposto da un solo partito o dalle sole forze di Governo (per la fiducia al quale basta la maggioranza semplice). Serve il concorso di altre forze politiche, e gli elevati quorum prescritti sono lì a costringere i grandi elettori ad una scelta condivisa. Quello eletto, dunque, sarà il Presidente “di tutti”. Da qui la necessità di votare una figura non divisiva perché chiamata a rappresentare «l’unità nazionale» (art. 87, comma 1, Cost.). La natura monocratica dell’organo, inevitabilmente, comporta una personalizzazione della carica presidenziale. Ciò impone una scelta meditata e rigorosa, attenta alla biografi a individuale, alla storia politica e al temperamento del candidato: il rischio, altrimenti, è che sia la persona a plasmare la funzione, e non viceversa. Saggiamente, per prassi al Quirinale sono sempre stati eletti soggetti con esperienza parlamentare o di governo, dunque conosciuti e affidabili; mai invece leader di partito o outsider della politica.

5. Lo scrutinio è segreto, così la designazione non è imposta dall’esterno e il consenso raggiunto nel collegio elettorale non è solo formale: dissensi e scelte alternative, rispetto agli ordini di scuderia, sono legittimamente assicurati sul piano procedurale. La segretezza del voto, inoltre, garantisce che la maggioranza coagualatasi a favore dell’eletto resti ufficialmente ignota: gli inevitabili retroscena tali rimarranno, proprio perché non è possibile stabilire con certezza “chi ha votato chi”. Qui entra in gioco il dovere del Presidente del collegio elettorale di impedire strategie elusive del voto segreto. A questo servivano i “catafalchi” predisposti fin dalle presidenziali del 1992, ora sostituiti da più igienizzabili cabine elettorali. Analogamente, farà bene il Presidente Fico a non leggere integralmente il nominativo così come riportato nella scheda: le varianti combinatorie attraverso cui esprimere la medesima preferenza permettono di ricondurre pacchetti di voti a specifiche forze politiche. Per evitarlo, basterà rivolgersi all’aula proclamando il solo cognome del votato. All’astensione come modalità di controllo sul (non) voto dei propri elettori, invece, non c’è rimedio: è una prassi in frode alla segretezza del voto, che i partiti dovrebbero evitare per lealtà costituzionale.

6. Come un metronomo, la Costituzione detta anche il ritmo e i tempi per l’elezione presidenziale. La convocazione del collegio elettorale nei «trenta giorni» anteriori al termine del settennato (art. 85, comma 2, Cost.) a questo serve: assicurare la continuità dell’organo attraverso un’elezione che preceda la scadenza del Presidente in carica. È il principio incapsulato anche in altre regole elettorali: l’abbassamento del quorum dal quarto scrutinio; le votazioni a oltranza fino a quando non sia raggiunta la maggioranza richiesta. Il record negativo fu raggiunto nelle presidenziali del 1971, quando occorsero 16 giorni e 26 votazioni per eleggere Leone. All’estremo opposto si collocano le elezioni al primo scrutinio nel 1985 (Cossiga) e nel 1999 (Ciampi). In tutti gli altri casi il Capo dello Stato è risultato eletto oltre la terza votazione, mai comunque dopo la scadenza del precedente Presidente. A questo tende la Costituzione: fare presto (e bene). L’idea capovolta che “i tempi” dell’accordo tra partiti dettino “i tempi” dell’elezione presidenziale antepone erroneamente le liturgie della politique politicien alle regole costituzionali. È dovere del collegio elettorale assicurare tempestivamente l’avvicendamento al Quirinale, evitando la prorogatio del Capo dello Stato oltre i sette anni del suo mandato.

7. Di prorogatio, invece, molto si sussurra in questi giorni come rimedio a un’elezione contrastata e protrattasi oltre il dovuto. Sul punto l’art. 85, comma 2, Cost. è muto. Non a caso: la Carta fa affidamento sul senso di responsabilità e di patriottismo costituzionale delle forze politiche. Diversamente, dovrà trattarsi comunque di una prorogatio brevissima. A un simile scenario, infatti, i Costituenti guardavano con sospetto, temendo un Capo dello Stato cessato dalla carica in grado di condizionare, nei tempi e nei modi, la propria successione. Ecco perché la prorogatio al Quirinale rappresenta un’eccezione, prevista espressamente solo nell’eventualità che le Camere siano sciolte o manchino meno di tre mesi alla loro cessazione (art. 85, comma 3, Cost.). In tali casi l’elezione presidenziale spetterà al nuovo Parlamento, «entro quindici giorni» dalla sua prima riunione: un termine breve, dunque, proprio per ridurre al minimo la prorogatio del Presidente uscente. Meglio, allora, evitare.

8. Per quanto politicamente desiderabile, anche un altro scenario emergente andrebbe evitato: la rielezione del Presidente. Intendiamoci: si tratta di un’opzione formalmente legittima. La Costituzione non la vieta. L’assenza di particolari condizioni ostative all’eleggibilità a Capo dello Stato, implicitamente, la consente. La ratio del c.d. semestre bianco la presuppone. La prassi, infine, la registra nel 2013, con la rielezione del Presidente Napolitano. Non esclusa, è però opzione costituzionalmente del tutto inopportuna. Sette anni di mandato presidenziale sono già tanti. Esprimono, empiricamente, l’equilibrio tra opposte esigenze repubblicane (che impongono cariche pro tempore), di stabilità (propria di un organo di garanzia) e di autonomia (del Presidente eletto rispetto alle Camere elettrici). Raddoppiati, trasfigurano la carica di Presidente da elettiva (suscettibile di controllo) a permanente (sciolta da ogni controllo). Se fosse superata per la seconda volta consecutiva la convenzione contraria alla rielezione, i Presidenti che verranno potranno metterla in conto, esercitando il mandato per propiziarsi una riconferma nella carica.

Viceversa, la mancata rielezione potrà interpretarsi come una sanzione, in contrasto con l’irresponsabilità politica che la Costituzione riconosce al Capo dello Stato nell’esercizio delle sue funzioni. Di tutto ciò al Quirinale si mostrano avveduti, da sempre. Nel 1963 Segni, con un messaggio alle Camere, propose la costituzionalizzazione del divieto di rielezione. Nel 2006 Ciampi, sollecitato a un bis, rispose con un comunicato che la rielezione «mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato». Nel 2013 Napolitano, accettando un nuovo mandato, parlò di scelta «eccezionale». Per parte sua, Mattarella ha reiteratamente manifestato indisponibilità a una rielezione, da ultimo nel suo messaggio di fine anno («Tra pochi giorni, come dispone la Costituzione, concluderò il mio ruolo di Presidente»). Con ciò confermandosi fi no in fondo custode di una regolarità costituzionale che, nella naturale successione a fine mandato, esprime normalità istituzionale. Come tutte le soluzioni acrobaticamente borderline, rieleggere a sua insaputa il Presidente uscente, già riluttante a un secondo mandato, potrebbe aprire scenari inaspettati: in assenza di formali candidature, è solo con il giuramento che si concreta la volontà del soggetto di accettare la (ri)elezione al Quirinale. Fino ad allora, tale volontà «è solo presunta» (Mortati). E se non accettasse?

9. Ciò che, invece, la Costituzione esclude è una elezione (o rielezione) condizionata a una scadenza anticipata del mandato. Ne va della disciplina e dell’onore del Presidente eletto: il suo giuramento di «osservanza della Costituzione» all’atto dell’assunzione delle funzioni (art. 91 Cost.) include anche il rispetto della regola secondo cui il Capo dello Stato «è eletto per sette anni» (art. 85, comma 1). La durata delle cariche istituzionali va rispettata perché espressione di un generale equilibrio tra poteri. Né la casella Quirinale può rientrare, alla bisogna, nel risiko della politica contingente. Certamente il settennato presidenziale può interrompersi prima, anche per dimissioni volontarie: atto personalissimo, insindacabile, immediatamente efficace, irrevocabile. Ma queste devono essere dettate da ragioni autenticamente sopravvenute. A parte quelle di Pertini, Scalfaro e Ciampi (date con breve anticipo rispetto alla scadenza del mandato, al fine di accelerare il passaggio di consegne con i loro successori già eletti), così è accaduto: nel 1964 con le dimissioni di Segni (per ragioni di salute), nel 1978 con Leone (per motivi personali), nel 1992 con Cossiga (per ragioni di politica costituzionale). Non invece con Napolitano, che le preannunciò già nel suo messaggio d’insediamento del 20 aprile 2013 («Mi accingo al mio secondo mandato […]. E lo farò fi no a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà»): si dimetterà anticipatamente il 14 gennaio 2015, aggiungendo così anomalia ad anomalia.

10. Ecco perché, a conti fatti, l’unico comportamento che non si presta ad alimentare sospetti o equivoci è la pronta e condivisa elezione di un diverso Capo dello Stato, da parte di chi ne ha il potere e il dovere, sotto dettatura della Costituzione. Perché «non è la Costituzione che deve piegarsi alla volontà contingente dei gruppi politici, ma sono questi che devono sottostare al sovrano dettato della Carta fondamentale» (Giuseppe Guarino dixit).