Benché Maurizio Crozza ne faccia la caricatura di un vecchio signore che straparla prima di cadere in un improvviso colpo di sonno; benché l’età si faccia sentire – davvero- con i relativi malanni, Silvio Berlusconi dimostra di possedere una marcia in più di tutti i leader politici del Belpaese; persino di quel Matteo Renzi che, per sua spontanea ammissione, crede di essere più furbo degli altri.

Per ora il mazziere della partita del Colle continua ad essere il Cav; ed è lui in persona a condurre il gioco, perché nessuno dei consiglieri che gli sono rimasti (dicono che Gianni Letta non sia d’accordo con le sue mosse) ha l’astuzia, la spregiudicatezza e il coraggio (e l’intelligenza) per immaginare un disegno come il suo. Mettiamo in ordine i fatti. Formalmente la candidatura di Berlusconi non è stata presentata né da lui né dall’alleanza di centrodestra: ma è da tempo, minacciosa, in campo. In questo modo, l’ex presidente sta precettando gli alleati: nessuno di loro crede che ce la possa fare, ma nessuno può negargli l’appoggio dei suoi grandi elettori, almeno fino alla quarta votazione, quando si cominceranno a capire dei possibili percorsi verso la maggioranza assoluta. Vorrei sbagliarmi, ma, a mio avviso, Mario Draghi è ormai fuori gioco. E in parte ci si è messo da solo quando, nella conferenza stampa, del 22 dicembre ha dichiarato: «Ovviamente è difficile che una maggioranza si spacchi per eleggere il nuovo presidente della Repubblica e poi si ricomponga per sostenere il governo. Il passaggio è complicato, il timore c’è. L’Italia ha tutto per essere protagonista ma serve stabilità. Ci vuole una maggioranza ampia, anche più ampia dell’attuale».

In sostanza, con queste considerazioni (io, Mario Draghi, vorrei essere eletto dell’attuale maggioranza di cui sarò il garante dal Quirinale; e questa maggioranza – aveva detto prima – non solo può ma deve andare avanti anche senza di me). Pure in questa occasione Silvio Berlusconi ha sparigliato il gioco, ribadendo che senza Draghi a Palazzo Chigi la coalizione che sorregge il governo arriva al capolinea, dove scendono tutti, anche il manovratore. Pertanto, se “il nonno” vuole essere “al servizio delle istituzioni” deve restare dove è proprio perché lui è il primo a ritenere necessarie quelle larghe intese, di cui la sinistra è ansiosa di liberarsi, come del resto la Lega. Salvini intende recuperare l’iniziativa politica sottrattagli da FdI, mentre gran parte del Pd e delle frazioni alla sua sinistra (in una prospettiva di “campo largo” con il M5s) in fondo la pensano come Massimo D’Alema (Draghi è una espressione della finanza internazionale ossia dello “sterco del diavolo”) e sollecitano (con Goffredo “Zarathustra” Bettini) il ritorno della politica (ovvero il miracolo della resurrezione di Lazzaro). In fondo sanno bene che, con Draghi, arriverebbe, prima o poi, il momento in cui il debito “buono” sparirebbe dalla scena e diverrebbe tutto “cattivo”. Così, pensano di tenere l’ex presidente della Bce come passepartout nei confronti della Ue e dei mercati, per il tempo necessario ad evitare le elezioni anticipate; guai però ad averlo tra capo e collo per sette anni.

Da Palazzo Chigi può essere sfrattato con un breve preavviso dal Parlamento; all’inquilino del Quirinale è la Costituzione a garantire il blocco delle locazioni. Ma come potrebbe proseguire a questo punto il domino del Cav ? Berlusconi è il primo a essere convinto di non poter salire al Colle. Ma se alla quarta votazione il suo nome ottenesse una cospicua maggioranza relativa, “il terrore correrebbe sui fili” (il titolo di un vecchio film rende bene l’idea). Intanto, proseguendo per alcuni altri scrutini, Silvio potrebbe “emmerder” (copyright Macron) pubblicamente gli avversari, a partire dall’Aventino dei dem perché non si fidano neppure di loro stessi. Poi verrebbe il momento di calare l’asso di briscola. Nessuno, neanche Berlusconi ha già in mente quale sarà la personalità a cui fare da king maker: occorrerà valutare la situazione a quel momento.

A chi scrive però piacerebbe ricordare a Silvio Berlusconi che nel 2015 aveva un candidato di grande prestigio; ma commise l’errore di concordarlo con Massimo D’Alema alle spalle di Matteo Renzi, il quale reagì rompendo il Patto del Nazareno e proponendo Sergio Mattarella. Una scelta che si è rivelata ottima, oltre ogni aspettativa più lusinghiera, in momenti molto difficili come quelli che seguirono le elezioni del 2018. Quella persona, nel 2015, era Giuliano Amato, il quale è tuttora in campo, con un dato di prestigio in più (la vice presidenza della Consulta) in un curriculum intessuto di eccellenze in tutte le funzioni svolte.