Il giorno dopo un membro della squadra di governo, uno di quelli che ritiene imprescindibile Mario Draghi nella casella di palazzo Chigi, prova a fotografare oggettivamente la situazione. “Se la maggioranza si divide come è successo in questa settimana su un tema che ci dovrebbe unire come la lotta alla pandemia, che agibilità può avere lo stesso governo nelle prossime settimane e mesi quando dovranno essere decisi dossier che realmente hanno una valenza politica e quindi potenzialmente divisivi?”.

Approvato il decreto che mette l’Italia al primo posto tra i paesi europei per l’obbligo vaccinale, restano a terra molte domande sul destino della legislatura e del governo Draghi. Matteo Renzi traduce i dubbi a modo suo in un’intervista al Corriere della Sera: «Draghi è un punto di forza di questo Paese. Se vogliamo mantenerlo a Palazzo Chigi gli va data massima agibilità politica. Se vogliamo invece che stia al Colle va costruita una maggioranza presidenziale, ma anche una maggioranza politica per il governo del dopo. Per farlo serve una iniziativa politica non tweet a caso». Mesi e settimane di toto-Quirinale perdono ogni significato di fronte a questo dato di fatto: se alcuni partiti di maggioranza si autodefiniscono logorando l’azione di governo su un tema come la lotta alla pandemia, è chiaro che la ragion d’essere di questo governo si esaurisce qui. Triste e solitario finale di partita. Con cui però è necessario fare i conti adesso, in questi venti giorni che restano prima della convocazione delle urne presidenziali.

Non ci possono essere tempi supplementari per questa partita. Uno dei rischi sarebbe perdere il valore aggiunto di Mario Draghi. Errore imperdonabile. Il presidente del Consiglio è stato definito “irritato” per la melina dei partiti. Altri lo hanno visto soprattutto “deluso”. Per altri ancora è “il Draghi di sempre: fa quello che deve essere fatto”. Whatever it takes, appunto. La mediazione c’è stata come sempre in questi mesi ma non ha tolto sostanza al provvedimento proprio come ha spiegato Draghi in avvio della riunione dei ministri: «I provvedimenti di oggi vogliono preservare il buon funzionamento delle strutture ospedaliere e anche mantenere aperte le scuole e le attività economiche. Vogliamo frenare la crescita dei contagi e spingere gli italiani che ancora non lo hanno fatto a vaccinarsi. Interveniamo sulle classi di età più a rischio di ospedalizzazione per ridurre la pressione sugli ospedali e salvare vite».

Obiettivi che dovrebbero essere condivisi da tutti. E che invece sono stati oggetto di trattative estenuanti durate una settimana con Lega e 5 Stelle contrari ad ogni obbligo ed estensione di supergreen pass. Fino alla fine Garavaglia ha minacciato l’astensione. Il paradosso è che anche da sinistra hanno strattonato il presidente del Consiglio per avere di più: Franceschini (Pd) ha chiesto più restrizioni per la scuola; Speranza (Leu) voleva l’obbligo per tutti. È finita come sappiamo: le scuole aprono il 10 gennaio e la dad scatterà solo a certe condizioni; l’obbligo del vaccino è scattato per gli over 50; lo smart working può già adesso essere previsto fino al 49 per cento della forza lavoro. Non serve una norma nuova ma applicare quella che già esiste (ed è firmata un mese fa). Dunque è un po’ meschino pensare che “Draghi ha mediato perché non può irritare i Grandi Elettori”, cioè parlamentari e delegati regionali che dal 24 gennaio inizieranno le chiame presidenziali. Draghi ha mediato per evitare una crisi di governo al buio e comunque ha ottenuto quello che voleva. Però è “deluso” dalle dinamiche di partito. Che non fanno presagire nulla di buono in un 2022 di campagna elettorale tra amministrative (maggio), referendum (giugno) e politiche (febbraio 2023). Sia dal punto di vista del Quirinale che da quello di palazzo Chigi.

Anche per questo è bene lasciare le cose e i conti in ordine. Fine anno è sempre tempo di bilanci. La relazione sull’attuazione del programma presentata sempre in Consiglio dei ministri del sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli assume anche il sapore del bilancio di una fase che si chiude. Una fase ricca e prosperosa e non perché lo scrive L’Economist. Dal 13 febbraio al 31 dicembre 2021, in 54 sedute, il governo Draghi ha deliberato 109 provvedimenti legislativi, di cui 41 decreti legge, 41 decreti legislativi e 27 disegni di legge. Una produzione “particolarmente corposa e sostenuta” si legge nella relazione di Garofoli “per numero e tipologia di atti di rango primario approvati”. Ritmi elevati e inusuali dovuti «alla necessità di far fronte ad una doppia crisi emergenziale – sanitaria ed economica , all’urgenza di assicurare la prima attuazione al Pnrr e prima ancora, all’esigenza di strutturarne tempestivamente la governance». Non solo: il governo Draghi si è trovato anche a dover recepire un importante arretrato di direttive europee in scadenza (dei 41 decreti legislativi adottati dal Governo, ben 33 sono serviti per norme Ue) e a fare i conti con ben 679 provvedimenti attuativi ereditati da leggi approvate dai governi Conte 1 e 2. In undici mesi ne sono rimasti 271.

Più in generale il governo Draghi ha smaltito perché “adottati e superati per abrogazione delle norme primarie”, ben 728 provvedimenti attuativi previsti, arretrati della XVII e XVIII legislatura. Ciò è stato possibile anche perché ciascuna amministrazione ha avuto target mensili da rispettare. A proposito di capacità di spendere, su cui il sistema paese Italia non brilla, nel report c’è una cifra che dà particolare soddisfazione: il 99,6% delle risorse complessive previste dal decreto Sostegni bis è stato sbloccato. Un record assoluto. La relazione non è solo un bilancio. Guarda anche avanti. Un capitolo è dedicato al 2022 e alle cose da fare. «Questa macchina dell’attuazione dovrà ulteriormente rafforzata nel 2022, anche in considerazione dei gravosi impegni connessi agli obiettivi del Pnrr», si legge. E la politica è in grado di continuare su questa strada?

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.