La Sfinge s’è fatta Oracolo. Non ha dichiarato nulla di specifico ma ha detto più di quello che ci potessimo aspettare. Certo, l’uomo resta sempre da decifrare ma stavolta tra non detti, enigmi e negazioni che sono affermazioni, ha segnato la strada. Posto che nessuno, meno che mai il Presidente del Consiglio, può autocandidarsi alla Presidenza della Repubblica, Mario Draghi ha però fatto capire alcune cose: se il Parlamento, centrale su ogni deliberazione, lo vorrà, è disponibile a salire al Quirinale; l’elezione dovrà essere veloce; il Pnrr e le riforme sono impostati in maniera tale che possono arrivare a compimento anche senza di lui alla guida del governo. Attenzione però: se il Parlamento, che è sempre sovrano, dovesse spaccarsi per eleggere il Capo dello Stato (che a quel punto non sarebbe il premier in carica), Draghi non resterebbe a palazzo Chigi a farsi impallinare e logorare da una maggioranza più rissosa e debole di quella attuale.

Ancora una volta non lo dice ma lo fa capire: io, Draghi, non resto un secondo di più alla guida di un governo che non è stato in grado di eleggere a grande e larga maggioranza il Capo dello Stato, che tutto il mondo vede come garanzia naturale del sistema Italia. Non deve suonare come un ricatto. È un semplice mettere in fila le cose. Alla fine qualcosa l’ha detta, insomma. Dopo mesi di Fanta-colle – che poi tanto Fanta non era – i pochi indizi sono arrivati nel luogo più istituzionale: la conferenza stampa di fine anno organizzata dall’Ordine dei giornalisti (con il battesimo di fuoco per il neoeletto presidente Carlo Bartoli) e dalla Stampa Parlamentare. Voci di corridoio annunciavano un premier poco voglioso di trovarsi davanti a un plotone di un centinaio di giornalisti, con 50 domande e la diretta tv.

Lui che è abituato a contingentare al massimo a 7-10 domande e che di sicuro voleva evitare quelle che gli fanno da mesi: andrà al Colle? E al suo posto chi verrà? Quanto durerà la legislatura? Premesse assai bigie, per il metodo e per la sostanza. Invece alle 10.30 in punto raggiunge il palco dell’auditorium Antonianum (location scelta da palazzo Chigi per motivi di spazio e quindi sicurezza), piazza lo staff nelle prime file e si consegna al plotone. Con la seguente premessa: «Prima di tutto ringrazio voi giornalisti per tutto ciò che fate per la democrazia e la libertà. Spero abbiate trovato le tradizionali conferenze stampa utili tanto quanto le ho trovate io». In un periodo in cui, se va bene, i giornalisti vengono accusati di propalare fake news e alimentare il panico per alzare vendite e ascolti, è già un successo. Qualcosa che ha subito disteso gli animi. Il tentativo di Draghi di dribblare le domande sul Quirinale e il destino della legislatura dura lo spazio di una domanda. La prima. La collega di QN gira abilmente intorno alla questione. La sala, a cominciare dal premier, scoppia in una incoraggiante risata e in applauso quasi liberatorio. Il dado è tratto.

La parola chiave è “nonno”. Nel momento in cui Draghi si definisce «un nonno al servizio delle istituzioni senza aspirazioni particolari di un tipo o dell’altro» e investe il Parlamento sovrano di ogni decisione, nei fatti dà il suo criptico via libera al Colle. Aggiungendo alcuni dettagli di primissimo piano: bisogna che il Parlamento sia “veloce” e “faccia presto”, cioè tutto avvenga alla prima “chiama” perché la seconda sarebbe già tardi; la legislatura deve andare avanti fino alla fine perché il calendario delle cose da fare è talmente intenso che non si può perdere tempo; in qualche modo lui stesso, seppure dalla residenza dei Papi, ne sarebbe il garante visto che le cose sono state “impostate in modo tale che procedano indipendentemente da chi ci sarà”. Sulla stessa linea di Mattarella, mette il Parlamento dove deve stare – al centro di tutto – e chiede unità, proseguendo nell’attuale larga maggioranza e, se possibile, rendendola ancora più larga. Che la maggioranza di governo si divida sull’elezione del Presidente della Repubblica «è uno scenario da temere premette Draghi. «E poiché occorre una maggioranza ampia, anche più dell’attuale, perché l’azione di questo governo continui, chiedo soprattutto alle forze politiche se è immaginabile una maggioranza che si spacchi sull’elezione del Presidente della Repubblica e si ricomponga magicamente quando è il momento di sostenere il governo». Una domanda da farsi. La risposta è scontata: no.

Alterna battute e momenti di leggerezza, Draghi. Quando spiega che sono stati raggiunti i 51 obiettivi che il Pnrr aveva fissato per la fine di dicembre e da cui dipende l’erogazione della seconda tranche (altri 30 miliardi), che è stato vaccinato almeno l’80 per cento della popolazione con una dose, che il paese è ripartito “nonostante le criticità” e che la “coesione sociale deve essere l’obiettivo di tutti perché senza non c’è crescita”, gli viene chiesto se considera la sua una “missione compiuta”. “No – è la replica di Draghi – e soprattutto questo lo sta dicendo lei”. “I miei destini personali non contano assolutamente niente. Non ho particolari aspirazioni di un tipo o dell’altro, sono un uomo, se volete un nonno, al servizio delle istituzioni. La responsabilità della decisione è interamente nelle mani delle forze politiche, non nelle mani di individui: sarebbe fare offesa all’Italia, che è molto di più di persone individuali”.

L’elogio del Parlamento, delle Regioni e dei comuni, cioè dei 1009 Grandi elettori che a fine gennaio avranno nelle mani il futuro del governo e della legislatura, è una costante della lunga conferenza stampa. Oltre due ore, ben 44 domande. “È una maggioranza che voglio ringraziare molto. È il Parlamento che decide la vita del governo e la deciderà sempre. La Costituzione prevede un governo parlamentare, i risultati sono stati possibili perché c’è il Parlamento, che decide la vita dell’esecutivo”. Draghi sgombera senza esitazioni altri due pensieri obliqui, quasi ostacoli alla sua nuova mission, emersi nelle ultime settimane. Il timore di un semipresidenzialismo di fatto, evocato dal leghista Giorgetti (sbagliando) per tranquillizzare chi dice: “Ma dove va questa maggioranza senza Draghi, salta in aria dopo un minuto”. Questo rischio “non esiste”. Il modello di Presidente della Repubblica è quello di Sergio Mattarella, che “ha svolto il suo ruolo con dolcezza e fermezza, ha attraversato momenti difficili e ha scelto con lucidità e saggezza”.

Il secondo pensiero obliquo riguarda la legittimità di un Capo dello Stato eletto da un parlamento non più rappresentativo del mondo reale (in questi sette anni le forze politiche si sono liquefatte e ricomposte a grande velocità) e neppure del Parlamento, visto che tra un anno e mezzo sarà sostituito da un’assemblea eletta con criteri e numeri completamente diversi. “Non ci vedo alcun problema, queste modifiche e questi cambi sono cose che succedono, si va avanti lo stesso”. Certo, su tutto questo pesa la variante Covid. “L’arrivo della variante Omicron ha aperto una nuova fase nella pandemia”. Ma anche sembra di capire che il motore è avviato, ormai è stato definito un metodo – basato sui numeri – in cui ciascuno dei decisori è responsabile per la propria parte. Oggi ci saranno due cabine di regia, una sul Covid “per decidere in fretta se e quali misure prendere per difendere con le unghie con i denti la normalità che abbiano conquistato”. E l’altra sul Pnrr che, ancora, al netto delle rassicurazioni di Draghi, e dei 51 obiettivi, presenta molte criticità. L’invito a tutti è di vaccinarsi e fare le terza dose. Non si parla di obbligo anche se resta sempre sullo sfondo.

La sicurezza e il pragmatismo di Draghi sembrano avere alla fine la meglio su tutto. Sembrano “la migliore garanzia”. La manovra è “espansiva e redistribuisce risorse”. Si può fare di più contro il lavoro precario, senza dubbio. “La crescita è la migliore assicurazione per questo e contro lo spread”. Dà la notizia di aver firmato un decreto flussi per 70 mila lavoratori stranieri “che è il fabbisogno delle nostre aziende che non riescono a trovare in Italia”. È probabile che ne arrivi anche un altro. Se Salvini dirà qualcosa, fatica sprecata, lo chieda ai suoi governatori. Non ha dubbi che il patto di stabilità sarà rivisto, “le regole sui bilanci servono ma devono essere buone”. Sui referendum, un’altra partita fortemente divisiva che si giocherà nella primavera, il governo “non si costituirà contro la loro ammissibilità”. Si parla di giustizia, cannabis e eutanasia. Parla di Europa e Russia e si capisce che non gli dispiacerebbe anche andare a ricostruire l’Europa. O meglio gli Stati Uniti d’Europa. È tra le opzioni possibili qualora i partiti per qualche motivo si dovessero mettere contro Draghi. Come stanno facendo.

Adesso la parola tocca a loro. Hanno un mese di tempo. E come dice con ottima sintesi il senatore Marcucci (Pd), “abbiamo chiaramente almeno tre problemi da risolvere: il Quirinale, la successione a palazzo Chigi e la durata della legislatura”. Se gli indizi portano verso un’intesa sottobanco Meloni-Letta per mandare Draghi al Quirinale, sarà interessante oggi capire cosa succede nel centrodestra. È previsto un vertice. Anche con Berlusconi. Salvini dice che “si va avanti con Draghi alla guida del governo”. Ma qualcuno ha messo in giro la voce di Giorgetti premier. E la partita torna al suo inizio.

 

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.