Draghi diventerà Presidente della Repubblica o resterà Presidente del Consiglio? È questa la domanda che, più di ogni altra, agita in questo momento i palazzi della politica. L’argomento che, attraversando trasversalmente tutte le forze politiche, è portato a sostegno della tesi, secondo cui è opportuno che resti a Palazzo Chigi, è che solo lui è in grado di dare concreta esecuzione al Pnrr e di affrontare la crisi finanziaria, che inevitabilmente seguirà alla pandemia. Ha dato, dopo molto tempo, credibilità internazionale all’Italia ed è opportuno, nell’interesse del paese, che una tale posizione di vantaggio non sia perduta.

Questa tesi si basa su di una premessa, non detta, ma egualmente fragorosamente evidente. Le forze politiche che vogliono che Draghi resti alla Presidenza del Consiglio manifestano, in questo modo, la consapevolezza non solo di non essere all’altezza di gestire questo passaggio difficile della vita del paese, ma anche di non essere state capaci di costruire quella autorevolezza e credibilità, sul piano internazionale, che la dimensione europea, da un lato, e la interdipendenza tra tutti i paesi determinata dalla globalizzazione, dall’altro, oggi richiedono. Si tratta, in fondo, di una silente ammissione di inadeguatezza, che singolarmente contrasta con le roboanti polemiche che ogni giorno segnano la dialettica politica e che, nella prospettiva indicata, appaiono per quello che sono: tempeste in un bicchiere d’acqua. D’altro canto, il sentire delle forze politiche è ampiamente condiviso dall’opinione pubblica. La quale è fortemente convinta che Draghi sia l’uomo della provvidenza, capace di porre rimedio ai guasti di una politica insipiente ed incapace.

Fortunatamente, Draghi ha manifestato una profonda e convinta fedeltà ai valori democratici. Non è perciò, questo, un versante che possa essere messo in discussione, anche se qualcuno, specie nel Movimento 5stelle, ha contestato il suo decisionismo e la irrilevanza delle volontà delle forze politiche. Tutto questo, tuttavia, non può far passare sotto silenzio l’altro aspetto della questione. La forza della figura di Draghi emerge con tanta nitidezza, al di là delle indiscutibili qualità personali, proprio per la debolezza delle forze politiche presenti nel paese. Di tale debolezza Sabino Cassese, sul Corriere del 2 dicembre, ha offerto una analisi puntuale ed incontestabile, suffragata da cifre assolutamente eloquenti. Del resto, la distanza ormai siderale tra forze politiche e paese si è andata man mano cristallizzando nella percentuale sempre crescente di astenuti alle elezioni, che si sono succedute negli ultimi anni, fino a dover registrare che il numero dei non votanti ha superato quello dei votanti. Si tratta di un fenomeno che costituisce la spia della crisi del sistema democratico.

Questo, come disegnato nella Carta costituzionale, è fondato sul ruolo dei partiti, raccordo tra la volontà popolare e le istituzioni del paese. È opportuno sottolineare che, in questo senso, la Costituzione contiene una inequivoca scelta di campo. Essa, difatti, ha fortemente limitato gli strumenti di democrazia diretta: non è prevista l’elezione diretta né del Presidente della Repubblica, né del Presidente del Consiglio; il referendum può essere solo abrogativo e soggetto ad una serie di verifiche preliminari di ammissibilità; il ricorso alla Corte costituzionale non è consentito ai cittadini, che devono ottenere che un giudice sia d’accordo con il dubbio di costituzionalità. Di qui, il ruolo privilegiato assegnato, nella dinamica delle istituzioni democratiche, ai partiti. Nel momento in cui, questi ultimi, sono in crisi è tutta l’architettura costituzionale che è in crisi.

Ecco, allora, che il futuro ruolo di Draghi potrebbe essere visto in un’altra prospettiva. Non quale ruolo assegnargli per mettere una pezza alla inadeguatezza dei partiti, ma quale ruolo per poter conseguire un rafforzamento del sistema democratico. Se il problema viene visto in questa diversa prospettiva, diventa inevitabile ricordare quali siano le ragioni della crisi dei partiti. Certamente ce n’è una di carattere generale, che attraversa tutto il mondo occidentale, legato alla crescente liquidità della società. La relativizzazione dei valori, che la liquidità comporta, ridimensiona inevitabilmente il ruolo di quelle organizzazioni sociali, come i partiti, che parametrano il proprio agire intorno ad una scala di valori. Con la conseguenza che la organizzazione si riduce a mero strumento di potere. Ma vi sono due elementi, specifici della società italiana, che hanno drasticamente aggravato la crisi. L’assoggettamento della politica ai voleri della magistratura, delegata, in una visione manichea ed ipocrita (di cui sono espressione le ragioni portate contro la candidatura a Presidente della Repubblica di Berlusconi), a dare un preliminare giudizio di appartenenza di chi svolga attività politica alla schiera dei buoni o dei cattivi e la riluttanza a confrontarsi con la volontà popolare, preferendo risolvere le crisi con i giochi di palazzo, invece che convocando il corpo elettorale.

Tutto questo ha, nel giro di pochi anni, creato una lacerazione profonda tra istituzioni e cittadini, che sicuramente non è ricucita attraverso i sondaggi, sulla cui effimera consistenza non possono certo fondarsi le istituzioni. In questa diversa prospettiva la elezione di Mario Draghi a Presidente della Repubblica significherebbe richiamare i partiti al loro ruolo ed alle loro responsabilità. Significherebbe costringerli a misurarsi con la volontà popolare. Significherebbe anche costringerli ad affrancarsi da quella sudditanza alla magistratura, che ne ha immiserito il ruolo e l’azione. Eleggere Mario Draghi al Colle, dunque, sarebbe da parte delle forze politiche un atto di coraggio e di fiducia nel proprio futuro. D’altro canto, l’interesse del paese richiede con urgenza che le forze politiche recuperino il loro ruolo. L’era Draghi, in un modo o nell’altro, è destinata inevitabilmente a finire. Se nel frattempo il paese non avrà recuperato una sana dialettica democratica, il declino con i suoi laceranti effetti sociali ed economici, che la pandemia non ha generato ma solo aggravato, sarà inarrestabile.