Che fine hanno fatto i liberali?
Intervista a Nadia Urbinati: “Draghi? Non abbiamo bisogno dell’uomo della provvidenza per 20 anni”
Dalla corsa al Quirinale a una sinistra smarrita. Temi di stringente attualità che il Riformista affronta con Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla prestigiosa Columbia University di New York.
C’è chi lo vuole subito al Quirinale. Chi preferisce che resti alla guida del Governo. E c’è chi evoca una riforma de facto di stampo semipresidenzialista. Al centro c’è comunque lui, Mario Draghi. Come la vede?
Draghi dovrebbe essere una risorsa, non un problema. Messa in questi termini, cioè o Draghi dovunque o siamo nelle peste, allora è un problema molto serio…
Perché?
Perché significherebbe che non abbiamo più nemmeno la volontà di essere un paese democratico. Purché ci sia Draghi in qualunque situazione istituzionale: è un approccio pericoloso e comunque sgradevole. La funzione di Draghi è al Governo. Che, certamente, continuerà fino al 2023 e poi si vedrà (a meno che non si decida di non andare a elezioni per non rompere questo incantesimo!). Non possiamo fare dei cloni di Draghi, piazzandoli ovunque. E nemmeno possiamo pensare di cambiare de facto la Costituzione, che è perfino peggio, perché sarebbe la sanzione dell’anticostituzionalismo, con un de facto che diventa norma! Ricordi del passato sono inevitabili. Sono discorsi assurdi. Ci sono tantissime possibilità oltre a Draghi per il Quirinale, e anche dopo Draghi a Palazzo Chigi. Non abbiamo bisogno dell’uomo della provvidenza ventennale.
Per restare ancora a Draghi, lui ha fatto sapere che al di là della carica che sarebbe chiamato a ricoprire, la sua disponibilità è legata indissolubilmente al mantenimento di una maggioranza di unità nazionale. Lei come legge questo vincolo?
Vuol dire questo: Draghi non è un politico, non vuole fare il politico (come fece Mario Monti che formò una sua lista per poi fare harakiri e rendere di fatto impossibile un governo stabile a guida Pd). Draghi leader unitario non può essere il presidente del Consiglio di una maggioranza. O è per/con tutti oppure non è Draghi. Questa è la sua funzione. Che va pure bene in una situazione difficile, ma che non va bene in una democrazia elettorale, dove c’è maggioranza e opposizione. Certo, il contagio: ma attenzione, un discorso che mira a eliminare assolutamente il contagio è assai preoccupante, il mito dell’immunizzazione assoluta è totalitario. I contagi ci saranno sempre. Questo problema non lo si elimina una volta per tutte, lo si contiene, lo si governa, lo si modera ma non lo si elemina. E allora che facciamo, Draghi for ever?
A proposito di unità nazionale. Una “unità” che lo sciopero generale del 16 dicembre, promosso da Cgil e Ui, ha incrinato. E a sinistra si è sviluppata una polemica aspra. Chi ha difeso lo sciopero, chi lo ha severamente stigmatizzato. Anche lo sciopero generale è diventato oggetto di scontro a sinistra?
Quella in cui siamo calati è una situazione che richiede massima cooperazione. Va bene. Ma cooperazione dei partiti al Governo non significa una società anestetizzata, muta. C’è non solo il diritto di sciopero e di associazione, c’è anche la necessità che questo diritto venga usato. Perché ci deve pur essere una interlocuzione tra chi sta dentro e chi sta fuori dalle istituzioni. Una buona democrazia dovrebbe volerla questa interlocuzione non aspirare all’armonia. E l’interlocuzione non la si fa con le grida su Facebook o su Twitter. La si fa col dimostrare la forza di un movimento, e quindi anche di opinioni o d’interessi che sono sentiti come non completamente soddisfatti. Non solo non ci vedo niente di male, ma è vitale che sia così, anche per lo stesso Governo che deve scrollarsi un po’, che deve essere disposto a modificare alcune posizioni. Questa è dialettica democratica. Non è che la maggioranza debba aspirare a farsi unanimità. Ci si perfeziona, si migliora, si cambia. Se non si accetta questo, si fa un Governo di bavaglio.
Il virus ha cancellato il conflitto sociale?
No. Il conflitto sociale esiste perché esiste la libertà economica e quindi anche la formazione di diseguaglianze. Se si accetta questa libertà si deve essere disposti a gestirne le conseguenze; qui sta la consapevolezza della necessità, vitale per un sistema democratico, della libertà di associazione e di manifestazione del dissenso rispetto a coloro che stanno al Governo. Non tutti gli interessi hanno egual voce e forza. E per quelli meno “vestiti” la forza della voce e del numero è un mezzo indispensabile per tener aperta la trattativa, avere un compromesso migliore o meno peggio. Possiamo accettare questo? Io credo proprio di si. Non siamo nel 1922 ma (quasi) nel 2022. Quello in carica non è un Governo di unità nazionale, ma di scopo, cioè funzionale ad uno scopo: riuscire a contenere il disastro legato al Covid. A contenere, non eliminare totalmente. Insisto su questo, perché diversamente possiamo dare addio alle elezioni e tenerci questo Governo a vita. Questa unità di scopo può essere sentita come conveniente dai partiti che sono da un lato un poco fannulloni e dall’altro cercano di evitare o procrastinare la loro responsabilità di dirci che cosa vogliono fare e da che parte stare. In questo caso, non stanno da nessuna parte perché c’è Draghi. Ma questo è davvero un brutto quadro: che rappresenta i partiti come anticaglie che non servono più, che sono anzi una spina nel fianco rispetto a un progetto di unità nazionale. Questo è negativo. E lo è altrettanto pensare che la società non debba avere o usare la possibilità di esprimere dissenso. Il dissenso è vitale in una democrazia. Dove stanno i liberali? Non è possibile pensare ad una democrazia del “Sì”. La democrazia è quella del “No”; serve a far sì che quelli che sono in dissenso, non rovescino il tavolo e stiano al gioco, perché sanno di poter esprimere liberamente il loro dissenso e pensare a come trasformarlo in proposta politica. Se non è questo, io non so cosa sia un regime democratico.
Da un lato la ricerca dell’uomo della provvidenza, dall’altro i corpi intermedi, in questo caso i sindacati, che cercano di marcare un loro protagonismo. E in questo schema, che fine fanno i partiti, soprattutto quelli a sinistra?
La sinistra dello spazio interno al Parlamento. Questo è la sinistra oggi: è lo spazio che sta a sinistra nell’emiciclo. Per quanto riguarda i partiti di sinistra, se ci sono io non li vedo e comunque non è facile dire come siano riconoscibili, che cosa vogliano, che cosa debbano volere. A sinistra si è accusato il sindacato per aver organizzato uno sciopero generale. Ma vivaddio. Il sindacato è rimasto l’unica associazione fuori dalle istituzioni ad avere una funzione organizzativa e rappresentativa d’interessi (tra l’altro nemmeno inclusiva di tutti gli interessi dei lavoratori). Le cooperative fanno altro, le associazioni per l’amenità e lo sport si occupano di tempo libero. Non è rimasto altro, se non il sindacato. Il partito non lo fa più questo lavoro. E se non vuole farlo, lo lasci fare agli altri. Non faccia il bacchettone, perché non c’è proprio niente su cui bacchettare. Ci sono persone che hanno difficoltà serie e non hanno de facto una rappresentanza politica. O si dà rappresentanza politica proporzionalmente a tutti, mediando e cercando un minimo comun denominatore che tenga insieme i vari interessi, oppure non ci si scandalizzi se un sindacato decide di usare l’arma dello sciopero. I partiti non fanno il loro lavoro. Che non è solo quello di cercare di aiutare le candidature e poi, una volta eletti, restare nelle istituzioni a vita. I partiti questo sono oggi: una oligarchia di eletti, che se ne stanno ben distanti dal mondo sociale in quanto non vogliono rischiare di dire ciò che potrebbe incrinare la loro audience; che spesso sono meglio disposti verso quei punti socio-economici di riferimento dai quali ricevono finanziamenti, un fenomeno perverso dal quale non si esce perché dovrebbero essere proprio questi attori politici a riformare se stessi! Difendere la democrazia rappresentativa contro i populismi e anche coloro che denigrano le elezioni come condizione di selezione dei peggiori, è sempre più difficile.
Si è detto che la dialettica destra/sinistra è vecchia e che le dicotomie del presente sono quelle conservazione/ progresso e sovranismo/europeismo.
Sono tutte distinzioni legate a uno scopo o a un tema. La distinzione destra/sinistra, invece, è legata a una visione di società. E quindi anche ad una visione di Europa. Io posso essere europeista da destra ed europeista da sinistra. Conservazione/progresso: che diavolo vuol dire? Andava bene nell’800 quando votava il 10% e all’interno di questo minimo di uguali negli interessi vi era chi era più liberale e chi più ancien regime. Ma in una democrazia di massa, dove c’è il suffragio universale, le distinzioni sono legate a maggiore giustizia sociale o minore giustizia sociale. Quando si includono nel demos tutti, scriveva Norberto Bobbio, è evidente che ci si debba aspettare che questi chiedano alla democrazia di operare per loro, per tutti loro, non per la minoranza. Il problema è quindi l’equa distribuzione dei costi e dei benefici all’interno della società, ovvero che tipo di società liberale vogliamo. Un modello principalmente privatistico o un modello più sociale? Un modello che fa perno sul mercato o un modello che fa perno sulla qualità della vita del più largo numero e quindi accetta di porre limiti a dove il mercato debba essere impiegato? Vogliamo che la sanità e la scuola siano distribuiti a chi ha e può oppure vogliamo un sistema di eguale opportunità? Qui sta secondo me la distinzione destra/sinistra. Per il resto mi sembra si tratti di boutade pubblicitarie.
L’anno sta finendo. Lei che vive e lavora tra Stati Uniti e Italia, cosa salverebbe del 2021?
L’affossamento di Trump. Che spero sia per sempre anche se ne dubito, purtroppo. Dal 6 gennaio 2021 la situazione è comunque diventata molto chiara: il populismo è pericoloso perché può generare l’idea che chi governa debba farlo per sempre. La parola “sempre” come quella “mai”, dalle democrazie deve essere depennata. Chi vuole governi che durino in eterno o chi rifiuta di andare all’opposizione, genera situazioni antidemocratiche. La “sudamericanizzazione” degli Stati Uniti che Trump ha marcato fino all’ultimo giorno della sua presidenza, beh, questa è stata una esperienza tremenda che si è mostrata il 6 gennaio. Lo stop a Trump è stato un bel regalo del 2021. Non ne vedo tanti altri. Ad eccezione dei vaccini, che funzionano, se si assumono nei tempi prescritti e anche se non garantiscono un’assoluta immunità.
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