Lo sciopero e la tenuta del governo
Landini fa lo sciopero generale ma il governo tiene: Draghi non può essere responsabile di anni di errori e ritardi
Quando alle 13 il palco in piazza del Popolo si svuota mentre Fiorella Mannoia spiega che “la storia siamo noi, questo piatto di grano”, la sensazione è che alla fine Landini e Bombardieri qualche ragione ce l’hanno. Perché i lavoratori hanno quasi sempre ottime ragioni dalla loro parte. E anche se il momento non era quello migliore e Mario Draghi non può essere il responsabile di anni di errori e ritardi del sistema Italia, questo sciopero generale non può fare male. Anzi, può aiutare. Perché si può sempre fare meglio e di più. E perché da qualche parte è pur vero che rabbia e disagio devono andare a sfogarsi. E a rappresentarsi.
Le ultime parole di Maurizio Landini dal palco dicono tutto: “Noi andiamo avanti a cercare risposte e a fare scioperi, se serve. Intanto lunedì andiamo al tavolo sulle pensioni convocato da Draghi perché il dialogo è importante. E speriamo che sabato anche le piazze della Cisl saranno piene come lo sono state oggi le nostre perché il sindacato deve andare avanti unito e l’unità sindacale è fondamentale”. Capo popolo e diplomatico, barricate e tavoli di noce, Maurizio Landini nelle sue giravolte, negli acuti positivi e anche nei suoi errori è alla fine il leader che certa sinistra vorrebbe. E forse è proprio questo che ieri voleva dimostrare. Al di là dei numeri – le segreterie di Cgil e Uil parlano di un’adesione allo sciopero generale pari all’85%; Confindustria del 5% – quella di ieri è una giornata che impone di essere letta almeno da tre punti di vista diversi: del sindacato; del governo e delle dinamiche in vista del Quirinale.
Cgil e Uil sono state attente ad evitare il rischio più grosso: la spaccatura dell’unità sindacale. Alla fine Landini lo ha specificato: “Oggi siamo divisi ma la nostra lotta prosegue uniti”. Per il resto ha ribadito i motivi dello sciopero. “Si sta determinando una distanza tra i bisogni del Paese reale e la politica che si sta sempre più chiudendo al suo interno e non si pone il problema che più della metà del corpo elettorale non va a votare”. Non siamo “fuori tempo massimo. Siamo all’inizio di questa battaglia”. In piazza del Popolo a Roma – ma sono cinque le città coinvolte – ci sono lavoratori e lavoratrici di Air Italy, pensionati, certo, ma anche studenti. Attaccano le politiche del governo Draghi ma anche i partiti della larga maggioranza e i giornali “che devono finirla di dare numeri falsi, prendete le buste paga dei lavoratori e smettete di dare percentuali”. La rimodulazione delle aliquote Irpef “determina che se hai 15 mila euro di reddito il vantaggio è poco meno di 6-7 euro lordi al mese. Chi prende 5-6 volte ha vantaggi di 7-800 euro l’anno. Questa è un’ingiustizia”. La manovra, secondo Landini, “non è espansiva”. Per Bombardieri, “non lo è nella direzione giusta e visto che mai ci sono stati oltre 200 miliardi da spendere, se non arrivano adesso i soldi ai più deboli, quando mai sarà il loro turno”.
Nei sessanta minuti di intervento dal palco il segretario della Cgil si dimentica però tutti gli interventi espansivi e di giustizia sociale che il governo ha fatto in questi dieci mesi: gli 8 miliardi contro il caro bollette, gli oltre cinque miliardi per la riforma degli ammortizzatori sociali che andranno a coprire tutte le tipologie dei lavoratori e non solo i dipendenti. La decontribuzione, il bonus famiglia. Dice, Landini, che “il dialogo con palazzo Chigi c’è, è vero, ma il più delle volte le decisioni sono già state prese”. Denuncia che i nuovi assunti sono tutti precari e che “questo non è vero lavoro”. Quello che divide veramente il paese “non è lo sciopero ma l’evasione fiscale, la precarietà e l’ingiustizia. Oggi abbiamo bisogno di un cambiamento e di cambiare le leggi sbagliate” a cominciare da “un nuovo contratto di inserimento al lavoro fondato sulla formazione e sulla stabilità”. Insomma, Landini ha fatto Landini e alla fine è bene che chi sta restando indietro dopo questa pandemia – perché ci sono e non son pochi – abbia voce e che sia quella dei segretari confederali.
Il punto vero è che, come ha dimostrato in queste ore il Mef, la manovra è espansiva e coesiva visto che dà i primi segnali di redistribuzione soprattutto le fasce deboli. Per ridurre il fisco ci sono di 8 mld di cui 7 sull’Irpef e uno sull’Irap con una una spalmatura che vede per l’85% sgravi fiscali a chi guadagna meno di 50mila euro. Non solo. E’ stato aumentato da 3 a 5,5 mld il finanziamento della riforma degli ammortizzatori sociali. C’è un miliardo e mezzo di decontribuzione per i lavoratori dipendenti sotto i 35mila euro, l’aumento della no tax area per i pensionati a 8.500 euro e la piena indicizzazione delle pensioni. Però Landini ha ragione quando mette il dito sulla piaga e denuncia che “molte scelte non vengono fatte perché la maggioranza è divisa”. Il segretario racconta che Draghi avrebbe voluto “togliere” a chi ha più di 75 mila euro di reddito per dare a chi ha meno ma “i partiti della larga maggioranza alla fine non hanno voluto toccare il sistema delle aliquote Irpef e i soldi collegati”. Sempre la maggioranza, compreso quindi il Pd (del resto il segretario Letta ha detto di “non capire le ragioni dello sciopero visto che la manovra è espansiva e redistribuisce”), non è stata capace di licenziare una legge contro le delocalizzazioni che è invece “urgentissima visto che le multinazionali hanno preso i soldi e ora scappano”. Non solo: se la legge di bilancio è ancora bloccata al Senato, è perché “una parte della maggioranza vuole ancora la rottamazione delle cartelle fiscali (in realtà sarebbe una proroga di sei mesi, ndr) e fare fesso chi ha sempre pagato le tasse”.
Insomma, la sensazione è che sia iniziato il tiro a piccione contro il governo Draghi così come nel 2012 fu organizzato contro Mario Monti. Due tecnici senza un partito alle spalle che li difende e protegge quando serve. Poi Monti lo organizzò ma si sa come è andata a finire. Al di là di Cgil e Uil, anche i leader di partito alzano continuamente bandierine paralizzando e complicando l’azione del governo – come dimostra l’iter molto faticoso della legge di bilancio – che tanto si chiama Draghi. Né Letta, né Salvini, né Conte. Ieri Salvini ha biasimato lo sciopero mentre Conte ha lisciato la rabbia di quelle piazze al grido: “Ascoltiamoli, hanno ragione”. Non è un caso che proprio ieri il Financial times abbia definito lo sciopero “un test per la tenuta politica di Draghi”, un appuntamento che “mostra le sfide politiche che il governo Draghi deve affrontare per varare le riforme strutturali cruciali ad assicurare che l’Italia ottenga le decine di miliardi di euro che la Ue ha stanziato per il Recovery fund”.
E si arriva così, inevitabilmente, al terzo punto di osservazione dello sciopero generale: se e quanto pesa questa giornata sulle urne quirinalizie e sul proseguimento della legislatura. Non direttamente perché nessuno delle migliaia in piazza è un grande elettore. È piuttosto il clima di incertezza figlio dei veti incrociati che sta levando fluidità e chiarezza all’azione di governo. E questo, come ha sempre detto, non piace a Draghi: “Il governo va avanti finché governa”. Il premier cercherà di sfuggire in ogni modo alla palude di un parlamento diviso. “Il vero cambiamento si fa partendo dai più deboli, coinvolgendoli” ha detto l’altro giorno in Parlamento. La coesione sociale è soprattutto questa.
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