È proprio vero che i mercati, gli investitori, le cancellerie europee scommettono sulla Italia come permanente eccezione che stenta a recuperare i lineamenti di un ordinamento costituzionale solido? Secondo i sostenitori più immaginifici e i detrattori più accaniti, con Draghi si è passati dal discredito della funzione politica al riconoscimento del potere della persona che in quanto tale diventa oggetto di un autonomo sostegno internazionale. Con Draghi si avrebbe un rovesciamento completo del paradigma weberiano che leggeva il politico moderno come una sostituzione dell’autorità formale-procedurale alle manifestazioni di potere personale, carismatico.

Per fortuna a tenersi lontano da queste suggestioni di autentico irrazionalismo politico è proprio Draghi. Presentandosi come “il nonno delle istituzioni” egli ha inteso rimarcare lo spirito di servizio che accompagna le scelte di una riserva della Repubblica che si mette a disposizione delle forze politiche per gestire una delicata fase della democrazia. Se c’è una cosa di cui Draghi sembra mostrare una consapevolezza piena è che la sua figura è espressione di una crisi della forma democratica. Il suo contributo di personalità, con un riconosciuto spessore europeo, è immerso dentro la comprensione di questa congiuntura ardua. La sua non è stata affatto una autocandidatura al Quirinale nel segno di una precipitosa fuga dal peso gravoso della responsabilità di governo per l’inseguimento di una personale ambizione di sistemazione ai vertici delle istituzioni. Mettendo sullo stesso piano la continuità dell’azione di governo e la salita al Colle ha inteso ribadire la sua funzione di equilibrio che non forza, non chiede nomine per coltivare una strategia personale di influenza, ma si mette a disposizione, si affida alla valutazione del sistema politico.

Il problema, in questo senso, non è di appurare cosa intenda fare Draghi a gennaio, ma di capire cosa il sistema politico possa chiedere a Draghi per sciogliere i nodi della sua attuale crisi. Per gestire la contrazione democratica italiana (carenza endemica del sistema di partito che si riversa sulla funzionalità delle istituzioni: abuso nella decretazione, nel ricorso al voto di fiducia, compressione dei tempi parlamentari) è più produttivo usufruire del suo ruolo di capo dello Stato o di capo dell’esecutivo? È evidente che Draghi saprebbe interpretare il cerimoniale presidenziale con efficacia e prestigio garantendo così una copertura significativa da spendere nelle trattative per smuovere gli intricati rapporti europei. Non si tratterebbe peraltro di un semipresidenzialismo di fatto o di una funzione direzionale sostitutiva, che si sviluppa al di fuori della norma vigente ed è quindi da sanare con delle immediate riforme costituzionali concepite nel quadro del riconoscimento di una competenza presidenziale nella gestione della politica europea. Un sistema che modula le istituzioni e i poteri sulla peculiarità di una persona non meriterebbe alcun apprezzamento, perché proprio una riforma ispirata dalla autorevolezza di un singolo statista confermerebbe la gracilità dell’ordinamento e la provvisorietà delle trame dei pubblici poteri.

La funzione di copertura su scala europea, che i Presidenti hanno garantito da circa un trentennio, si è giocata con le prerogative esistenti e non ha avuto bisogno di espliciti riconoscimenti formali. Se grandi Presidenti in situazioni particolari hanno svolto una puntuale supplenza operando sulla base della loro personale credibilità, ciò significa che l’ordinamento non ostacola l’emersione di una mansione integrativa del Quirinale. E per questo non si richiede un complesso lavoro di innovazione costituzionale per enfatizzare alcuni connotati che nella consuetudine già esistono.
Quello che non persuade è di immaginare che Draghi, una volta eletto come Presidente e solo con il proprio personale prestigio, possa sopperire alle carenze politico-culturali del sistema e quindi coprire il costo simbolico e sostanziale connesso alla eventuale caduta in mani inesperte o inaffidabili della conduzione del governo. Credere che un condominio Draghi-Meloni (o Salvini) possa sedare preventivamente le perplessità e le ostilità per i rigurgiti sovranisti è una manifestazione di spirito impolitico.

Nessun capo dello Stato, se non crea un governo a fiducia presidenziale avvalendosi della benedizione del trasformismo che scompone i gruppi parlamentari esistenti, può accaparrarsi una supplenza istituzionale che è possibile solo in condizioni di vuoto politico conclamato. Pensare a Draghi come al badante istituzionale di Salvini o Meloni è una semplice illusione sui giochi di coppia destinata a naufragare in presenza di una maggioranza di destra compatta che vincerebbe (alla faccia del semipresidenzialismo di fatto) ogni serio conflitto sostanziale con il Quirinale su materie programmatiche fondamentali. Va rimossa come troppo irrealistica ogni concezione mistica della autorevolezza individuale del Presidente, perché solo un infantilismo politico-istituzionale non riesce ad afferrare che la credibilità personale del capo dello Stato non è una semplice etichetta che segue il corpo del Presidente, ma indica una qualità che si accende in situazioni cruciali e compare sempre nel vuoto degli attori di governo. Il Presidente, che in una condizione di stasi o discredito del sistema politico e munito di poteri elastici entra in campo per smuovere una paralisi conclamata, deve rassegnarsi a rientrare nei ranghi in presenza di una maggioranza che resiste ad ogni moral suasion e a qualsiasi suggerimento di segno europeista.

Se un governo a guida sovranista allarma così tanto allora bisognerebbe costruire le condizioni politiche per scongiurare la deriva. Scrutate con attenzione, le parole di Draghi rivelano una cultura politica molto vicina alle corde progressiste. Ha censurato la mattanza del carcere di Caserta (“siamo qui per affrontare le nostre sconfitte”), ha bacchettato le simpatie no-vax di Salvini e Meloni (“l’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”), ha esaltato il carattere fondativo dell’antifascismo (“ma allora non fummo tutti brava gente”), ha stigmatizzato la democratura (“cresce il fascino perverso di autocrati e persecutori delle libertà civili”). Nel documento sottoscritto con Macron ha anche indicato un indirizzo di politica economica europea chiaramente ostile ai paradigmi dell’austerità e agli assiomi aurei del neoliberismo. Le riserve di Draghi su Quota 100 e sul Superbonus, visto come una costosa redistribuzione a vantaggio dei ceti più ricchi, rivela una sensibilità persino più sociale di quella del Pd delle Ztl.

Un Pd meno sonnolento dovrebbe decodificare le parole di Draghi e costruire le condizioni politiche di una leadership riformatrice. Non sempre funziona il lodo trasformista che sprigiona effetti salvifici attraverso la scomposizione in aula del campo nemico. Ogni tanto c’è bisogno di una battaglia politica esplicita. La speranza in un effetto correttivo connesso al dualismo dei poteri (al gioco di coppia Draghi-Meloni o Draghi-Salvini) è del tutto vana. La vera rassicurazione può venire soltanto dalla costruzione di una coalizione larga attorno a Draghi per vincere sul terreno politico la battaglia contro i sovranisti, gli euroscettici. Dinanzi all’usura dell’attuale formula di governo, alla stanchezza di una opera di mediazione tra punti di vista inconciliabili, la verifica elettorale sarà risolutiva. La prospettiva di una legittimazione democratica di un governo riformatore avrebbe degli effetti di rassicurazione persino superiori a quelli della salita al buen retiro del Colle.