Neppure il “Grande Timoniere” redivivo troverebbe elementi di eccellenza nella confusione che contraddistingue il dibattito sulla elezione del prossimo presidente della Repubblica. Alla fine ce ne faremo una ragione: hanno sbagliato coloro che – come il sottoscritto – si erano fatti l’idea che Mario Draghi fosse in procinto di salire al Colle tra due ali di folla festanti, sorretto da una maggioranza plebiscitaria di grandi elettori fin dai primi scrutini. Il mutamento di scenario (ovvero il ritorno al suk) è stato tanto rapido che qualcuno non se ne è ancora accorto e continua a recitare sul medesimo copione.

Ma veniamo ai fatti. Il dies a quo è stato il 22 dicembre; l’occasione, la conferenza stampa di fine anno del premier. Draghi è come sempre misurato. Ma questa volta ha voluto sbilanciarsi: «Abbiamo conseguito – ha affermato – tre grandi risultati. Abbiamo reso l’Italia uno dei paesi più vaccinati del mondo, abbiamo consegnato in tempo il Pnrr e raggiunto i 51 obiettivi. Abbiamo creato le condizioni – ha aggiunto il premier – perché il lavoro sul Pnrr continui. Il governo ha creato queste condizioni indipendentemente da chi ci sarà (alla guida, ndr): l’importante è che il governo sia sorretto da una maggioranza come quella che ha sostenuto questo esecutivo, ed è la più ampia possibile. È una maggioranza che voglio ringraziare molto». Quindi questa era l’indicazione: non si cambia linea: si va avanti con le larghe intese; anzi, sarebbe un problema per il governo, se il capo dello Stato fosse eletto da una maggioranza diversa dalla sua.

Poi il premier è passato a parlare di sé, lasciando intendere di essere disponibile a tutto quello che gli potrà essere chiesto come “nonno nelle istituzioni”. Per riassumere: a) a Palazzo Chigi il lavoro impostato sul Pnrr può essere proseguito da un altro governo che sia ancora espressione dell’attuale maggioranza (quindi non vi saranno elezioni anticipate) della quale lui stesso si farebbe garante dal Quirinale; b) non ci sarebbero particolari problemi se a capo del governo vi fosse un suo successore, espressione della medesima linea e della stessa maggioranza. Così, con garbo, stile e correttezza, Mario Draghi ha deciso di mettere le carte in tavola per scoprire se qualcuno dei propri interlocutori fosse in bluff. Si è accorto (con sorpresa?) che tutti avevano in mano un punto competitivo. Fuor di metafora, la sortita di Draghi non ha raccolto quel consenso che fino a poche ore prima era dato per scontato. Anzi non è stato neppure necessario attendere che il gallo cantasse tre volte perché le forze politiche facessero orecchie da mercante al richiamo del premier. Matteo Renzi è andato subito al sodo smontando la principale richiesta di Draghi: non c’era alcun bisogno che il capo dello Stato fosse eletto dalla attuale maggioranza. Poi parlò Zaratustra (Goffredo Bettini) sostenendo che la vera emergenza non era la pandemia, ma l’esautorazione della politica dal governo della Repubblica; e che la prossima elezione del capo dello Stato avrebbe dovuto ripristinarne il primato.

Interrogato sul tema, Enrico Letta, nuovo Re Tentenna della situazione, ha dichiarato di non essere né contrario né favorevole alla elezione di Draghi al Quirinale, ma di continuare a volerne, comunque, il contributo fino a quando la crisi non sarà superata. Su questa posizione sono confluiti anche gli “homines novi” come Carlo Calenda che vorrebbe rinchiudere Draghi a Palazzo Chigi, magari – alla stregua del Conte Ugolino – con alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Infine la spada di Brenno sulla bilancia l’ha gettata l’ex lìder maximo, con poco riguardo, seguendo o ampliando il ragionamento di Bettini. «L’idea che il premier si auto-elegge capo dello Stato e nomina al suo posto un alto funzionario del ministero dell’Economia – ha detto pubblicamente D’Alema, mi pare non adeguata per un grande Paese democratico come l’Italia, con tutto il rispetto per le persone». E poi: «Non mi impressiona che abbiamo al governo Draghi, che è una condizione di necessità, ma il tipo di campagna culturale che accompagna questa operazione, sulla necessità di sospendere la democrazia e di affidarsi a un potere altro che altro non è se non il potere della grande finanza internazionale». Quindi, per D’Alema la scelta del nuovo presidente della Repubblica deve essere l’occasione per “un ritorno in campo della politica”, con “una soluzione di compromesso che, inevitabilmente, non potrà non coinvolgere un ampio campo”.

Dal magazzino sono emersi i residui della vecchia ditta: persino l’ostilità nei confronti della finanza internazionale (è la stessa nei confronti di Big Pharma?) che per definizione ha interessi diversi – il che non è mai stato dimostrato, ma solo assunto) rispetto a quelli dei popoli e delle nazioni, anche in un’economia globalizzata. Su questo presupposto i “rottamati” sono pronti a rientrare nel partito guarito dalla malattia di Renzi. Ormai i segnali del ritorno a casa sono diffusi. Tutto si tiene insieme con le altre dichiarazioni che Il Riformista ha raccolto in queste ultime settimane: c’è stato chi ha sostenuto, dopo lo sciopero generale del 19 dicembre, che in Italia si è ritrovato il diritto di dissentire (anche se non si capisce contro chi, perché e per quali motivi); che la sinistra è viva solo per le lotte della Cgil (in cui la maggioranza degli iscritti pare che voti Lega); che non bisogna rinunciare a credere che il futuro possa essere migliore del presente (una considerazione che, proiettata in una fase storica, sembra un’allucinazione). Nessuno ha chiesto a D’Alema se ricorda l’ultimo prodotto della politica: l’esito delle elezioni del 2018. E se fosse “adeguata per un grande Paese democratico come l’Italia” un premier estratto a sorte da un elenco di nomi sconosciuti e presentato a quel presidente della Repubblica che avrebbe avuto il diritto e il dovere di sceglierlo da sè.

Magari l’ex presidente del Consiglio potrebbe chiedersi come mai quello stesso personaggio (che un po’ aveva imparato il mestiere guidando maggioranze differenti in due anni) fosse divenuto il punto di riferimento dello schieramento progressista e restasse tuttora un alleato fondamentale del “campo largo”. C’è troppa voglia di antico nel “nuovo” che si cerca nelle agorà. A questo punto emergerebbe una ragione di più per insistere con Sergio Mattarella (il quale non farebbe mai il “gran rifiuto” di Celestino V). Chiunque si sentirebbe offeso se gli dicessero “vai lì per un paio d’anni, con l’intesa che poi te ne vai”. È questo il semipresidenzialismo all’italiana? Perché è quanto hanno sempre, se non detto, fatto capire, i sostenitori della sua riconferma. Solo Mattarella può coprire le spalle a Draghi, prima che venga sfrattato anche da Palazzo Chigi. Nel qual caso, quando si andrà alle elezioni Mario Draghi farebbe bene a scendere in campo in prima persona alla guida di una coalizione di partiti ora “in cerca d’autore”. Lo sappiamo: non è incoraggiante l’esperienza di Mario Monti. Lo afferma uno che vi ha preso parte.

Ma si può imparare dagli errori di Scelta civica, che furono parecchi, sia nella formazione delle liste (non si costituiscono eserciti con soli generali), sia nella campagna elettorale. Non so chi abbia consigliato al Monti politico di prendere il più possibile le distanze dal Monti presidente del Consiglio, promettendo che il capitolo dei sacrifici era finito e che si sarebbe tornati alla normalità. Scelta civica si frantumò in pochi mesi. Ma il quadro politico rimaneva solido: a Napolitano riconfermato riuscì persino di varare una maggioranza di unità nazionale che non resse alla soddisfazione della sinistra di mandare Silvio Berlusconi ai servizi sociali. Lo stesso personaggio che oggi – se si arrivasse alla quarta votazione – potrebbe nutrire qualche speranza di salire al Colle per assicurarsi dei funerali di Stato. E magari di vedere che tanti suoi nemici giurati restituiscono, come hanno promesso, il passaporto.