Lo scacchiere Quirinale
Mollare Draghi per i dem sarebbe un salto nel buio
Alla luce delle dichiarazioni, dei silenzi e delle omissioni che hanno accolto – nei partiti – le dichiarazioni rese da Mario Draghi nel corso della conferenza stampa di fine d’anno, il premier – lasciando intendere di essere disponibile a trasferirsi al Quirinale – ha commesso una ingenuità, ha precorso i tempi, non ha tenuto conto a sufficienza delle regole di fair play necessarie in questi momenti? Di tutto questo si è parlato nei giorni successivi. Ma non vi era nulla di tutto questo.
Il suo è stato un rischio calcolato, al pari di quello che corre il giocatore di poker che decide di andare a scoprire se gli altri bluffano. E, in effetti, la mano, per ora, si è chiusa così. In poche ore Draghi si è accorto di non avere le condizioni per andare al Quirinale “sugli scudi”, ma che il cammino che conduce al Colle più alto, per lui, è irto di ostacoli. Diversamente da quanto ci si aspettava, Silvio Berlusconi, al momento, non sembra intenzionato a svolgere il ruolo di king maker, se non di se stesso. Questa sua insistenza condiziona la manovra delle altre forze di centro destra, le quali non sono disposte a scommettere un solo euro sulla possibilità che il Cav realizzi il suo desiderio di avere dei funerali di Stato, ma non possono tirarsi indietro almeno nelle prime votazioni. Ma il segnale più importante è arrivato dal silenzio stizzito del Pd, che si pronuncerà – dicono – nella riunione convocata per il 13 gennaio.
Nel frattempo, però, Goffredo Bettini, in un lungo articolo su Il Foglio, ha svolto alcune considerazioni sul profilo del nuovo capo dello Stato, che, se fossero una sorta di anteprima dell’orientamento del partito, non sarebbero certo favorevoli alla elezione di Draghi. L’articolo ha un merito: quello di non mettersi a pontificare che Draghi è indispensabile a Palazzo Chigi dove dovrebbe restare fino al 2023 (per Bettini si tratterebbe di “una ipocrisia di troppo”); e magari anche oltre, come se fosse possibile stipulare con l’ex presidente della Bce un contratto a tempo determinato che lo metta al riparo, fino alla scadenza, dagli scherzi da prete dei partiti in Parlamento. Il guru romano, pur ricordando i successi del governo (ivi compreso un omaggio al Conte 2) e i tanti problemi irrisolti, non dedica – a mio avviso – molta attenzione all’emergenza, sia essa sanitaria ed economica, quale principale riferimento per l’individuazione del capo dello Stato. Secondo Bettini «il tema è se tale figura emergerà come la continuità della fase emergenziale, che lo stesso Draghi ritiene conclusa, con un sovraccarico di compiti e di aspettative che anche nei prossimi anni oggettivamente toglierebbero sovranità al conflitto politico, oppure se essa rappresenterà una fase nuova e un supporto e stimolo per una inedita democrazia dei partiti».
Certo Goffredo Bettini non può non riconoscere che Draghi resta la candidatura «più forte e naturale»; ma «l’altra via possibile sarebbe uno scatto di volontà dei più importanti leader politici italiani per indicare una soluzione diversa da quella di Draghi, in grado di ottenere la maggioranza in Parlamento – prosegue Bettini – Se si dovesse arrivare a questo punto, mi pare essere la scelta meno indicata la ricerca di una figura dai contorni incerti, scolorita (con chi ce l’ha?) nella speranza che si riveli sostanzialmente debole e ininfluente sul sistema politico e proprio per questo votabile da tutti». Tanto che non esita a prendere in parola Matteo Renzi e il suo esasperato tatticismo: «La maggioranza per un presidente non deve per forza coincidere con la maggioranza dell’attuale governo». Proprio il contrario di quanto si è chiesto Draghi il 22 dicembre: è immaginabile che una maggioranza si spacchi per l’elezione del Presidente della Repubblica e magicamente si ricomponga per sostenere il governo?».
Ma il guru dem ha capito ciò che da tempo sostengono i sostenitori di Mario Draghi: chi va al Quirinale ci sta sette anni, chi si ferma a Palazzo Chigi, fin che gli riesce, cammina sull’acqua. Che cosa ce ne faremmo, poi, di un presidente di garanzia? Garanzia rispetto a cosa – si chiede Bettini – che non sia il corretto esercizio dei poteri garanti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica? La svolta, secondo Bettini, risiede «nella conquista di una centralità politica in grado di assicurargli una nuova legittimità e una nuova funzione nella futura contesa per il governo nazionale». Per questi motivi la caratura del nuovo capo dello Stato deve rispondere «alla duplice capacità di intervenire nei processi con la “tecnica” appropriata e la “forza” necessaria».
L’autore della “summa” si sottrae alla “girandola di nomi” che stanno circolando. Tranne che escludere nei fatti (salvo che per un caso residuale) quello di Mario Draghi, del quale non viene neppure indicata la farisaica necessità della sua guida del governo. Sarebbe, il caso di ricordare, però, che il Patto del Nazareno si ruppe proprio sull’elezione del Presidente della Repubblica. Non si trattò di un fatto banale perché comportò il venir meno di una intesa che avrebbe assicurato al Paese una riforma costituzionale più solida e condivisa. Determinare oggi – nel contesto dell’esecuzione del Pnrr – la rottura dell’attuale quadro politico, alla ricerca, magari attraverso le elezioni anticipate, di una diversa maggioranza e di un capo dello Stato che ne sia il garante, dando nei fatti il “benservito” a Draghi, sarebbe – come si diceva una volta – un salto nel buio.
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