Siamo abituati alle “ prime volte”. Eppure non si dovrebbe evitare di menzionare che quella di Mario Draghi, nella conferenza-stampa del 23 dicembre, è stata la prima volta di un’autocandidatura per il Quirinale manifestata “coram populo” da un uomo di Governo, nel caso addirittura dal Presidente del Consiglio. Se si eccettua, con o senza riferimento al Governo, l’autocandidatura di Giuseppe Saragat, espressa non in pubblico ma nei rapporti con i partiti dell’Esecutivo del tempo, della quale si seppe, poi, a distanza di tempo (con Saragat al Colle), non vi sono ricordi di altre iniziative della specie.

Per di più, Saragat pose un problema di alternanza nell’estrazione e nella caratterizzazione dopo due Presidenti di espressione Democrazia cristiana e cattolici, quali Gronchi e Segni, ai quali sembrava giusti che succedesse un laico dei partiti alleati alla Dc. Si dirà che, poi, Draghi ha bilanciato la propria candidatura con gesuitici soppesamenti e con le successive “voci” di Palazzo Chigi, ma essa è rimasta, vivificata dal richiamo al “nonno al servizio delle istituzioni”, la nota dominante. E con essa il richiamo allo schieramento su cui dovrebbe fondarsi l’elezione del Capo dello Stato, nonché la prosecuzione della vita dell’attuale Esecutivo. Insomma, sono state descritte e proposte le basi e le composizioni della suprema Magistratura dello Stato e del Governo. Si tratta di una deviazione da un naturale percorso dovuta allo stato di eccezione o di una svolta con la quale fare i conti anche negli anni a venire? Che, però, inciderebbe pesantemente nel funzionamento degli Organi rappresentativi.

Alla base dell’autocandidatura vi è l’esordio di Draghi nella conferenza, secondo il quale stata compiuta la missione affidatagli all’atto e come ragione della nomina a Premier. Il mandato finora è stato solo parzialmente assolto, sia perché occorrerà ancora tempo per riscuotere la prima “tranche” di fondi, sia per il 47 obiettivi da conseguire entro giugno per avere la seconda tranche di importo pressoché pari, sia, ancora, per una serie di altri importanti adempimenti. Le principali misure (in particolare riguardanti il fisco, la concorrenza) che si denominano riforme sono per ora leggi-deleghe, alcune insoddisfacenti, che, per arrivare a una tale legittima denominazione, hanno bisogno dei decreti delegati da emanare entro un tempo non brevissimo. La variante Omicron impegna il Governo in un’azione ancora straordinaria di prevenzione, nei limiti del possibile, e di contrasto. I problemi che sta cominciando a creare l’inflazione, innanzitutto a livello europeo, non più definibile come strettamente transitoria, esigono una conduzione salda della politica economica e di finanza pubblica anche per un raccordo con la politica monetaria.

In campo comunitario, vi è la necessità di progettare come superare il Patto di stabilità per ora sospeso fino al prossimo dicembre. L’articolo recente sul Financial Times a firma Macron-Draghi sulla necessità di nuove regole adeguate e trasparenti segnala l’importanza del lavoro per una nuova governance economica. È pur vero che le soluzioni proposte sono generiche e variamente interpretabili – dal controllo della spesa con le riforme strutturali alla possibilità di non incorrere in ostacoli normativi per la promozione di investimenti pubblici di un certo tipo (la golden rule limitata?) – tuttavia il tema è sul tappeto, a maggior ragione perché l’articolo non affronta il modo in cui raggiungere gli obiettivi fissati: se con una anche formale riforma del Patto o degli Accordi intergovernativi successi, quale il Fiscal compact ovvero, ancora, accentuando la flessibilità di applicazione, come forse vorrebbero i tedeschi. Naturalmente, bisognerebbe fare i conti con i “Paesi frugali” capeggiati dall’Olanda non certo favorevoli a iniziative di revisione, tanto meno alla pur ipotizzata costituzione di un’Agenzia europea per il debito che dovrebbe assumere quello nazionale contratto per fronteggiare il covid.

Insomma, se a ciò si aggiunge una valutazione deludente della manovra di bilancio, la missione è ancora da realizzare. Ciò non significa bloccare le aspirazioni, ancorché straordinarie, di Draghi. Ma chiama i partiti a svolgere il proprio ruolo di iniziativa e di proposta. L’immagine che si offre di una classe politica complessiva incapace di proporre almeno un raffronto tra due/tre posizioni di “quirinabili” e pendente dalle decisioni di un solo uomo, una sorta di pantocratore, non è affatto esaltante, quando addirittura non teme che l’eventuale insuccesso dell’ascesa di Draghi al Colle abbia come reazione le dimissioni dello stesso dal Governo, cosa, però, alla quale certamente non pensa lo stesso Premier autodichiaratosi al servizio delle istituzioni. Non si deve ritenere affatto che egli possa far propria la famosa e funesta espressione “ après moi le déluge”.

A volte è proprio l’appiattimento di alcuni, come testimoniano purtroppo gli applausi al Premier in occasione della predetta conferenza stampa evocanti la Corea del Nord, il peggiore ostacolo per Draghi. È sperabile che in questi ultimi giorni, prima di entrare nel pieno della vicenda dell’elezione del Presidente della Repubblica, i partiti, con un scatto di orgoglio, riprendano appieno, come gruppi parlamentari, le proprie attribuzioni perché l’elezione in questione possa essere il risultato di un serio confronto e non di un “prendere o lasciare” o di una sorta di contratto per adesione.