In questi giorni di giustificata euforia (lassù qualcuno ci ama), le cronache si sono accanite nella ricostruzione di una sorta di albero genealogico di un possibile (e auspicabile) governo presieduto da Mario Draghi. La ricerca non poteva che partire da Palazzo Koch (l’edificio con le palme di via Nazionale) sede della Banca d’Italia. Si sarebbe potuto risalire a Luigi Einaudi, uno dei “padri” della Ricostruzione e del boom economico, che divenne il primo presidente della Repubblica, inaugurando un cursus honorum che sembra essere lo sbocco naturale degli ex Governatori, chiamati, nelle ore più buie, a salvare il Paese. Le rievocazioni si sono concentrate principalmente sulla “chiamata” di Carlo Azeglio Ciampi, il predecessore di Draghi alla Banca d’Italia (tra i due vi fu la lunga e rimossa parentesi di Antonio Fazio): la formula del suo governo, un mix di tecnici e politici competenti, viene indicata come il modello a cui si ispirerà Mario Draghi.

Naturalmente non poteva mancare un riferimento a Lamberto Dini, a capo di un esecutivo in cui era “un tecnico” anche il gatto di Palazzo Chigi, al quale si deve la realizzazione di una importante riforma del sistema pensionistico, proposta, patrocinata e sostenuta da quelle stesse organizzazioni sindacali che avevano contribuito, col pretesto della previdenza, a disarcionare Berlusconi. Ma Dini era stato – si fa per dire – un Conte ante litteram: ministro del Tesoro del primo governo del Cavaliere, poi premier orientato a sinistra, infine fondatore di una “Lista” omonima finita nella coalizione di Romano Prodi. Quanto a Mario Monti vi è stato, in questi giorni, un impegno defatigante per stabilire irrevocabilmente una cesura tra il governo presieduto dall’ex commissario Ue e l’eventuale compagine di Draghi.

Anzi, la sottolineatura della differenza tra i due è stata assunta come giustificazione per stare insieme tra ex nemici per la pelle (per chiarezza chi scrive condivide quest’operazione senza particolari patemi d’animo). Nel passare in rassegna i governi di alto profilo del recente passato, allo scopo di collocare preventivamente, al Pincio, il busto di Draghi, i commentatori hanno avuto una grave e ingiusta dimenticanza. Nessuno ha ricordato l’azione del primo governo di Giuliano Amato dal giugno 1992 all’aprile 1993. Fu l’ultimo rantolo della Prima Repubblica (ora oggetto di una rivalutazione postuma persino eccessiva) ormai sottoposta allo smantellamento per via giudiziaria. Eppure, quell’esecutivo, guidato da un’eccellente personalità in tanti campi (ora giudice costituzionale), insieme al cosiddetto Parlamento degli inquisiti, operò con coraggio per consegnare ai posteri un’Italia meno sofferente di quella attualmente affidata a Mario Draghi.

Capaci: 23 maggio 1992. La notizia del mortale agguato al giudice Giovanni Falcone, alla moglie e alla scorta, piombò a sorpresa in Parlamento, riunito in seduta comune e bloccato da giorni nella elezione del Capo dello Stato. Tutto era impaniato nella carta moschicida di un sistema che già aveva udito le campane suonare a morto. Il tritolo della Mafia mise la classe politica con le spalle al muro; Oscar Luigi Scalfaro venne eletto presidente della Repubblica. Poi – non si trattò di un processo lineare e breve – fu la volta del primo governo della XI Legislatura. Lo presiedeva Giuliano Amato. Occorreva per prima cosa ritrovare la credibilità dei nostri partner, ai quali era stato promesso che l’azienda Italia avrebbe raggiunto obiettivi di risanamento e di riequilibrio finanziario stabiliti a Maastricht. Il primo impegno che attendeva il nuovo premier era il vertice del G7 a Monaco, il 1° luglio. Amato volle impostare con i ministri economici (Reviglio, Barucci, Goria, Guarino, Cristofori) le misure urgenti già annunciate nel dibattito sulla fiducia.

L’entità della manovra-tampone per l’esercizio in corso era stata indicata in almeno 30mila miliardi di lire dalla Banca d’Italia (di cui era Governatore Carlo Azeglio Ciampi, prima di intrecciare il suo nome con la storia del Paese). In più, venne deciso che per il 10 luglio (al ritorno di Amato) sarebbe stato approntato il disegno di legge delega per il riordino dei grandi settori della spesa pubblica (sanità, previdenza, pubblico impiego, finanza locale). Al vertice di Monaco, l’Italia fece buona impressione. Per la prima volta un suo premier discorreva correntemente in inglese e appariva preparato su tutti gli argomenti all’ordine del giorno. Il suo governo era atteso alla prova, con un misto di ostilità e di sufficienza che non albergava solo negli ambienti dell’opposizione.

Il tocco finale per completare il pacchetto dei tagli fu la famigerata imposta una tantum sui depositi bancari (con un’aliquota del 6 per mille), un tributo di cui gli italiani si lamentano (e temono) ancora adesso e che ha praticamente cambiato per sempre (forse non è del tutto un male) la cultura del conto corrente. Si trattò di un prelievo a tappeto sui depositi bancari esistenti in una determinata data. Ci furono risparmiatori costretti a pagare l’imposta su risorse che transitavano temporaneamente sui loro conti, per uscirne subito. Parallelamente alla manovra correttiva, Amato iniziò a sbrogliare un’altra matassa, quella degli enti a partecipazione statale. Il problema nasceva da una questione pratica molto stringente: se Iri ed Eni non se la passavano bene dal punto di vista dei bilanci, l’Efim (un ente minore, di costituzione relativamente recente, che aveva raccolto le partecipazioni “marginali”) stava sul punto della bancarotta.

Tuttavia, la sua liquidazione venne vissuta dai mercati come una sorta di 8 settembre di uno Stato che fugge senza pagare il conto, tanto da diventare uno dei motivi della perdita di fiducia verso l’azienda Italia, con gravi ricadute per la lira nelle settimane successive. Il piano delle riforme fu completato dalla contemporanea definizione (il 10 di luglio) del disegno di legge delega di riordino dei quattro settori critici della spesa pubblica (sanità, previdenza, pubblico impiego e finanza locale). La notizia dell’attentato a Paolo Borsellino e alla sua scorta sorprese Amato al “buon ritiro” di Ansedonia. Era una calda domenica pomeriggio. Nicola Mancino e Claudio Martelli, subito allertati, partirono per Palermo. Amato e Scalfaro presenziarono ai funerali. Le immagini di quella giornata scorsero come un triller davanti agli occhi degli italiani. La città bloccata da un traffico impazzito e da cortei di dimostranti. La Cattedrale stipata, l’ira dei poliziotti, la povera vedova di un agente ammazzato che non voleva leggere il messaggio “buonista” che qualcuno aveva scritto per lei. Il Capo della Polizia, il prefetto Parisi, si prese uno sganassone destinato a Scalfaro.

La strage di Palermo (la seconda in un breve lasso di tempo) sembrava aver sospinto in alto mare la barchetta del governo. La “luna di miele” con l’opinione pubblica si era bruscamente interrotta. Per giunta, all’estero non prendevano ancora sul serio il nostro Paese. Amato sentiva di dover impiegare quei giorni che lo separavano dalle ferie (a esse in Italia non rinuncia nemmeno il Parlamento) per realizzare un altro risultato. La scelta cadde sul problema della struttura del costo del lavoro e dei meccanismi di perequazione automatica delle retribuzioni (ciò che rimaneva della cosiddetta scala mobile dopo i fatti del 1984-1985: il decreto Craxi e il referendum abrogativo). Il 31 luglio dopo un paio di giorni di trattative serrate Amato raggiunse con Cgil, Cisl e Uil un accordo che aveva l’obiettivo di produrre effetti immediati sull’inflazione e sul contenimento del costo del lavoro, per uscire dalla situazione di stallo in cui si trovava il Paese. Le riforme sarebbero venute in seguito.

Il protocollo del 31 luglio cancellava definitivamente la scala mobile (o meglio escludeva qualsiasi meccanismo di indicizzazione automatica delle retribuzioni); stabiliva il blocco, fino a tutto il 1993, degli aspetti retributivi della contrattazione aziendale e dettava alcuni princìpi generali cui avrebbe dovuto attenersi la riforma della struttura della contrattazione e del costo del lavoro nella seconda fase del negoziato, da tenersi a settembre. Tutte e tre le organizzazioni sottoscrissero il protocollo, ma subito dopo si aprì, con le dimissioni di Bruno Trentin, una discussione in Cgil che si sarebbe conclusa un mese dopo (ma questa è tutta un’altra storia).

La manovra d’aggiustamento e la legge delega erano ancora all’esame del Parlamento. E già era venuto il tempo di pensare alla sessione di bilancio e alla legge finanziaria. Ma le preoccupazioni di quello scorcio d’agosto riguardavano la tenuta della lira. A livello europeo (come stabilito in una riunione dell’Ecofin) c’era l’impegno di difendere la parità almeno fino al 20 settembre, il giorno in cui i francesi sarebbero stati chiamati a pronunciarsi, tramite referendum, sul Trattato di Maastricht. Pesanti turbative monetarie (come in fondo erano i necessari riallineamenti) potevano determinare una prevalenza dei no. Anche in Danimarca c’erano stati problemi, poi recuperati in una seconda fase; ma la Francia era uno dei partner forti e uno dei paesi fondatori della Comunità. Le ripercussioni sarebbero state molto negative e avrebbero influenzato le opinioni pubbliche delle altre nazioni europee. Le turbolenze speculative, però, non facevano caso a questi problemi: già il 4 settembre la Banca d’Italia comunicò a Palazzo Chigi che era in corso fin dal mattino una consistente emorragia della nostra moneta.

Non fu possibile evitare un aumento del tasso di sconto che fu portato al 15%. Ma tale “linea di difesa” si rivelò ben presto inadeguata. La speculazione prese ad attaccare fin dal lunedì successivo. Si avvertiva l’esigenza di un segnale che desse fiducia ai mercati, perché la Banca d’Italia stava impiegando le riserve valutarie nella difesa del cambio, senza riuscire, per altro, a invertire la tendenza. Nel frattempo, oltre alla debolezza della lira rispetto alle altre valute, c’era la fuga dei capitali. Gli stessi titoli venivano acquistati all’estero con un notevole guadagno fiscale. Cedeva il mercato secondario. Il 9 settembre, l’esecutivo affrontò la situazione. Ma i provvedimenti adottati si rivelarono ininfluenti per recuperare la situazione.

Trascorsero alcune settimane di grande confusione e di tentativi inutili. La Banca d’Italia era molto preoccupata all’idea di svalutare, ma ormai non restava altro da fare. Si cercò di ottenere, comunque, un generale riallineamento delle monete con rivalutazione del marco e riduzione dei tassi. I tedeschi assentirono, non i francesi (per via del referendum) e gli inglesi. Era domenica: il Comitato monetario della Cee decise il riallineamento delle monete all’interno dello Sme. La lira venne svalutata del 3,5 per cento, mentre di altrettanto si rivalutarono le altre monete. Il D Day ebbe luogo il 17 settembre. La manovra adottata rimane, ancora oggi, una delle operazioni finanziarie più imponenti degli ultimi decenni. Per dimensioni: tra maggiori entrate e tagli alla spesa si trattò di oltre 90mila miliardi di lire da aggiungere ai 30mila dell’aggiustamento.

Per qualità: poiché non era in campo solo un tentativo più o meno brutale di fare cassa, ma anche un disegno ampio di riordino di settori delicatissimi: come il primo importante riordino delle pensioni (con l’aumento dell’età pensionabile e l’avvio della armonizzazione delle regole), il riassetto della sanità (con la cosiddetta “aziendalizzazione”), la riforma del pubblico impiego (con applicazione del regime di diritto comune ai rapporti di lavoro) e della finanza locale. La relativa legge di delega, che era già stata approvata dal Senato, venne radicalmente emendata. Dopo la sua approvazione definitiva i decreti delegati applicativi furono predisposti e varati entro l’anno, eccezion fatta per quello che disciplinava per la prima volta la previdenza complementare che arrivò in porto nell’aprile del 1993, quale ultimo atto del governo prima delle sue dimissioni.

Nel passaggio all’anno successivo l’aggravarsi della situazione politica nella bufera di Tangentopoli rese sempre più difficile l’iniziativa del governo. Se le opposizioni di sinistra erano state prese in contropiede dalla prontezza dell’azione di Amato, ben presto intensificarono la polemica col governo che si era imbarcato – attraverso il tentativo del Guardasigilli e insigne giurista Giovanni Conso di trovare una via d’uscita dall’assedio delle procure – nella mistica della “questione morale” perdendo anche l’appoggio del Capo dello Stato (Oscar Luigi Scalfaro che rifiutò di firmare il decreto). Tuttavia i governi successivi hanno vissuto, per anni, di rendita, per quanto riguarda gli aspetti economici e finanziari. Ciò vale anche per l’esecutivo “dell’età dell’oro” presieduto da Ciampi che occupò la “terra di nessuno” tra il passato che moriva e il futuro che stentava a nascere in buona salute.

La più importante iniziativa di questo esecutivo (era ministro del Lavoro Gino Giugni) fu la pacificazione con le parti sociali grazie alla stipula del Protocollo del luglio 1993, con il quale venne regolata e razionalizzata la struttura della contrattazione collettiva con l’obiettivo comune del rientro dall’inflazione in vista degli impegni di Maastricht. Ma questo risultato non sarebbe stato possibile senza l’azione destruens di Giuliano Amato.