Sulla scrivania, il Financial Times è squadernato tra pile di libri che incombono, minacciano di precipitare. Due pc accesi ai lati. Incontriamo Lamberto Dini nel pieno di una giornata di lavoro. Presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e del Tesoro, tre volte senatore e una deputato, direttore generale in Banca d’Italia, dopo gli anni trascorsi a servire “con disciplina e onore” le istituzioni, ora le studia dall’alto dei suoi novant’anni. Li compirà tra due settimane. «Gli interessi mi tengono vivo». La tempra fiorentina non tradisce. “Baciare il rospo”, come si diceva del suo governo, è un titolo del Manifesto rievocato più volte in questi giorni.

«Venne fuori da una espressione di Ciampi», sorride. E mostra una galleria di vignette irriverenti: il Rospo incorniciato nella versione di Giannelli tra una foto della Regina Elisabetta e un Bill Clinton che gli stringe la mano. «I cinque anni alla Farnesina sono quelli che più la hanno divertita», azzardiamo. «Alla Farnesina per cinque anni di seguito, ai tempi più una responsabilità che un divertimento», che tuttavia non mancava: ecco che appare una Matrioska russa che ha fuori Scalfaro, dentro D’Alema, infine lui. D’Alema gli chiese di fare il Presidente della Camera, lui declinò: «Volevo occuparmi del ruolo dell’Italia nel mondo, scelsi io gli Esteri».

Come ricorda l’esperienza della formazione del suo governo tecnico?
C’è qualche punto di contatto con le cose di oggi che deriva dalla caduta dei governi Berlusconi di allora e Conte bis di oggi. Il presidente della Repubblica non ritenne di andare a nuove elezioni. Alla fine del 1994, caduto Berlusconi per opera della Lega, Scalfaro non voleva concedere nuove elezioni a un anno dalle ultime e concordò un governo di programma. Un governo di transizione che doveva fare solo alcune cose, utili e necessarie in quel momento. E così nacque il mio governo di scopo, che aveva per punti le priorità della finanza pubblica, la riforma del sistema pensionistico. Un governo fatto unicamente da non parlamentari, come concordato tra Berlusconi e Scalfaro. Era un governo a tempo, e concluse con una missione compiuta i suoi intendimenti. Oggi il Presidente della Repubblica ha indicato l’impossibilità di andare a elezioni, con il covid e l’urgenza di presentare il Recovery plan.

Una similitudine di percorso anche tra lei e Draghi. Prima in Banca d’Italia e poi al governo.
Non esistono governi tecnici: i governi sono tutti politici, dal momento che ricevono l’investitura dal Parlamento. Persone anche non parlamentari, da quel punto in poi, devono occuparsi delle questioni dello Stato per quel che ritengono opportuno e necessario. Ora non sappiamo quale indirizzo darà il Presidente incaricato. Penso che in questa situazione sarebbe opportuno non solo un governo di programma ma un governo che abbraccia – e mi pare ci siano i consensi – la più gran parte delle forze politiche per fare un governo di più lunga durata. I governi tecnici hanno sempre avuto una durata relativamente breve, di un anno o poco più, nella mia esperienza ma anche in quella di Monti. Mi pare che con Draghi si possa pensare a un governo di più lunga durata che non risolva solo le urgenze ma che sappia impostare una azione di più lungo periodo per ridare slancio al Paese.

Torniamo alla formazione del suo governo. Anche allora Lega e sinistra votarono insieme la fiducia.
Io avevo chiesto la fiducia a tutti, Forza Italia non volle darmela. Si formò allora una maggioranza spontanea di forze che non volevano le elezioni. Fu la prima volta che la Lega votò insieme con il Pds e i popolari, ovvero con il Partito democratico di oggi.

Qual è il suo rapporto con Mario Draghi?
Draghi è stato per sei anni, negli anni Novanta, direttore esecutivo della Banca mondiale. Io ero già direttore generale di Bankitalia. Tornato a Roma, su indirizzo del governatore Guido Carli, fu nominato direttore generale del Tesoro dal 1990 fino al 2001. Il nostro rapporto è stato sempre cordiale, con scambi di punti di vista. Ha sempre avuto un grande rispetto per gli ambiti, le competenze, le responsabilità altrui. Mi telefonava quando c’era un problema. Quando il caso lo richiedeva, ci si incontrava. E nei momenti in cui era in difficoltà l’ho sempre aiutato.

Draghi allievo di Federico Caffè. Un keynesiano?
Il pensiero evolve nel corso del tempo. Come è stato detto proprio sul Riformista, Caffè è stato un ottimo insegnante, ma nei primi anni Ottanta ad esempio non era un grande fautore dell’Unione Europea. Riteneva che l’Italia non avrebbe retto la concorrenza dei competitor industriali. Quando nel 1957 l’Italia decise di entrare nel mercato comune europeo, ricordo che la Confindustria prese una posizione scettica, timorosa. Una posizione che si dimostrò errata, perché l’industria italiana si dimostrò capace di evolvere senza bisogno di protezionismo, reggendo il confronto con il resto del mondo. Gli anni del miracolo italiano dimostrano di quali capacità fu protagonista l’impresa nel nostro Paese.

Quali saranno le politiche di Draghi?
La prima preoccupazione sarà per l’emergenza della pandemia. Il piano delle vaccinazioni da accelerare. E la predisposizione di un programma di riforme e di investimenti da includere nel Recovery plan. Quello che era stato fatto dal governo precedente era assolutamente inadeguato e inaccettabile per l’Unione europea. Dunque il primo grande compito di Draghi sarà riparare i danni, perché si passa di lì se si vuole creare lavoro. Non con i bonus e gli incentivi, di cui faceva il pieno il governo precedente, per incapacità in particolare del presidente del Consiglio che voleva fare la cabina di regia a Palazzo Chigi, con lui a capo. Delle cose assurde.

Questo abbraccio tra Pd e M5s che cos’è?
Un abbraccio di convenienza, in particolare per il Pd che ha colto l’occasione per rientrare in una compagine governativa. Un abbraccio tra due debolezze, più che tra due forze politiche. Il Pd ha una grande tradizione, di grandi principi, ma l’abbraccio con i Cinque Stelle, un populismo senza competenze, con tabù ideologici… Il Pd e il Movimento cinque stelle si sono arroccati sulla posizione “Conte o morte”, e si sono impiccati tutti e due.

Forse anche i Cinque Stelle possono evolvere.
Le divisioni interne sono molto profonde, ma c’è una parte più riformista. Ho sentito altri che pensano a nazionalizzare le banche. Quelli contro la Tav, contro le infrastrutture… dove vogliono portarci, nel Medioevo? Spero che diventino una forza responsabile. Via i tabù ideologici, evviva il Mes sanitario.

Va preso?
Vorrei sapere se c’è una persona pensante che può dire che non va preso.

Lo sosteneva l’ex premier Conte. Lo ha mai incontrato?
Mai. Sapevo che era un avvocato, professore di diritto. So che stava nello studio Alpa, ma era un junior. Uno a cui si affidavano solo questioni minori. È stato pescato dall’illustre ministro della Giustizia, Bonafede, per portarlo a fare il presidente del Consiglio senza che avesse alcuna esperienza istituzionale.

Un handicap che alla fine ha dovuto scontare.
È stato il suo più grande handicap. Lo ha portato sempre a esitare nelle decisioni. Rimandare, rimandare, rimandare per non offendere né l’uno né l’altro. Ma qualcuno sa quali sono le idee politiche di Conte? Nessuno lo sa. È un mistero. Quando ho creato Rinnovamento Italiano ho detto chiaro e tondo quali erano le idee, i miei riferimenti nel mondo liberale. Se non dici chi sei, non puoi avere una direzione. Conte ha dimostrato di non avere una visione politico-culturale, una idea di società.

Quella che invece ha Draghi?
Draghi ha saputo guadagnarsi negli anni una credibilità e una autorevolezza ineguagliabili in Europa e nel mondo. Sorprendente la reazione degli altri Paesi, è visto con il più grande favore.

Di Matteo Renzi cosa pensa? È l’autore di questa insperata svolta.
Renzi è capace di grandi cose, di grandi intuizioni. Però è spregiudicato. Il carattere a volte è più importante del talento, e lui deve saperci fare i conti. Ma non c’è dubbio che Renzi ha talento politico. Viste le inefficienze del governo precedente, se oggi abbiamo il governo Draghi lo dobbiamo a lui, e questo gli va riconosciuto con gratitudine. È stato bacchettato per aver creato la crisi in un momento come questo, ma se il presidente Conte avesse avuto un minimo di autonomia in più avrebbe potuto correggersi, e invece non aveva il minimo di indipendenza politica.

Facciamo una ipotesi di scenario? Un anno per risolvere le emergenze, poi Draghi al Quirinale e si vota?
La nomina del presidente della Repubblica appartiene al Parlamento e ai grandi elettori. Si attraversa il ponte quando si arriva davanti al ponte. Vedremo quale sarà il cammino del governo. Un aspetto che non deve passare inosservato: nelle consultazioni Draghi ha incluso le parti sociali. E questa sua grande sensibilità sociale è atipica, in questa fase. Il bisogno di coesione sociale e la necessità di mettere mano alle riforme, anche per incentivare il lavoro. Mi ricorda l’atteggiamento di Carlo Azeglio Ciampi, da cui Draghi ha imparato molto.

La giustizia è la palla al piede del sistema Italia. Lenta, corrotta, talvolta ingiusta, andrebbe tra le priorità delle riforme.
Quel che è stato fatto dal ministro uscente Bonafede e gli scandali che sono emersi a proposito della magistratura richiedono di mettere mano alla riforma dell’intero sistema giudiziario nel minor tempo possibile. Incominciando da una riforma del Csm, a mio modo di vedere. È da lì che si deve partire.

Sono riforme strutturali. Da attendersi a suo avviso dal governo Draghi?
Possono essere impostate, portate avanti e forse anche concluse nel giro di un anno. E possono dare i loro effetti nel lungo periodo. Ma la prima riforma da fare è sul lavoro. L’aumento della disoccupazione, che non calerà nel breve periodo, mi preoccupa.

Come metterebbe mano al lavoro?
A partire dal Recovery, creare posti di lavoro sulla base di progetti, dare il via ai cantieri. Ma non basta. Ci sarà bisogno di una corsia preferenziale per la realizzazione di questi progetti, in particolare modo per quelli infrastrutturali. Bisogna prendere ad esempio per tutti il modello Genova, del Ponte San Giorgio: liberare il lavoro dalla burocrazia, altrimenti ci si ritrova al punto di partenza.

E invece siamo a un punto di svolta obbligato. Per fortuna.
Negli ultimi anni la maggior parte dei partiti ha mirato solo a fare piccoli passi che nell’immediato o nel breve potevano tradursi in consenso. È mancata la visione del futuro. Ora la Lega, con Salvini e Giorgetti, ha colto l’occasione per riqualificarsi. I Cinque Stelle hanno capito, in maggioranza, che devono rinunciare ai loro niet. È una occasione eccellente, forse unica per compiere un passo avanti nella storia. Dalle crisi si può uscire più maturi, più solidi. Siamo fortunati ad avere Mario Draghi, non c’è altra persona che abbia tanta credibilità per portare il Paese verso la terza Repubblica. Che ben venga il futuro.

 

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.