Mario Draghi premier? Sono pronto a fornire referenze della mia propensione per i governi di alto profilo, possibilmente tecnici, europeisti e soprattutto molto rigorosi in materia di riforme e di politiche pubbliche. Nel mio piccolo ho sostenuto, nel 1992, il primo governo Amato quando la Cgil – in cui ho trascorso i trent’anni migliori della mia vita – insieme alle altre Confederazioni promuoveva degli scioperi generali contro le sue riforme. Ho apprezzato il primo governo di Romano Prodi per le sue iniziative in tema di politiche di lavoro e di welfare (il Rapporto Onofri resta il miglior progetto elaborato in materia di politiche sociali).

Anni dopo ho lasciato quel gruppo alla Camera, quando il Pdl decise di non appoggiare più il governo di Mario Monti. Accettai una candidatura di “servizio” nelle liste di Scelta civica e mi occupai del programma elettorale con Pietro Ichino. Anche quando si rimediavano solo insulti, ho sempre difeso pubblicamente la riforma delle pensioni di Elsa Fornero. In sostanza, credo, in buona fede, di aver sempre inseguito il rigore dei conti pubblici ovunque ve ne fosse traccia. Negli ultimi tempi, pur non apprezzando il personaggio, ho giudicato molto importante il jobs act del governo Renzi, ivi compresa la modifica della disciplina dei licenziamenti individuali. Lo ricordo, non perché consideri di un qualche interesse le mie opinioni, ma soltanto perché ho sentito paragonare in tv – in polemica con Renzi e con alcune sue dichiarazioni – quel provvedimento, con gli annessi decreti legislativi, alle regole del mercato del lavoro, vigenti in Arabia Saudita.

Di converso, non ho mai risparmiato feroci critiche alle forze politiche che hanno vinto le elezioni nel 2018, alla maggioranza giallo-verde e alle leggi del Conte 1. Tutta questa premessa allo scopo di accreditare – se vi fossero dei dubbi – l’entusiasmo con cui ho accolto l’incarico conferito a Mario Draghi, una personalità che riassume in sé e nell’attività svolta nel corso della vita, tutti i valori in cui credo e le scelte di politica economica che condivido. Se la parola “patrioti’’ non fosse stata arbitrariamente requisita da Giorgia Meloni, potrei dire che per ritenersi tali si ha il dovere di augurarsi che il tentativo di Draghi abbia successo. Mi perseguita, tuttavia, il “ragionevole dubbio” che quest’operazione sia la conseguenza di due azzardi, in successione tra di loro.

Il primo, quello di Matteo Renzi che ha lavorato, in modo spregiudicato, per questa soluzione. Solo chi è in malafede e si ostina ad avvalersi del consunto armamentario populista, può ritenere che la crisi del governo Conte 2 non si sia risolta per un problema di poltrone e per le smodate richieste del senatore di Rignano. A Renzi avrebbero concesso di tutto pur di evitare, dapprima, l’uscita di Iv dalla maggioranza, e, per riportarla, poi, nuovamente al suo interno. Da quello che si è appreso, i renziani, nelle trattative, hanno sempre rilanciato avanzando richieste insostenibili, al limite della provocazione, proprio per farsi dire di no.

Questa linea di condotta, però, ha fatto correre al Paese dei rischi esiziali, che non sono per nulla sventati, ma che incombono sullo scenario della politica come lugubri avvoltoi: le elezioni anticipate, la vittoria della destra-destra, l’elezione del presidente della Repubblica da parte di un Parlamento a maggioranza sovranista, rafforzata dall’apporto dei rappresentanti delle Regioni, la rottura con l’Unione europea e le sue conseguenze sulla ripartizione e l’utilizzo del Ngeu. Renzi giustamente canta vittoria ma ha passato il cerino acceso tra le dita del Capo dello Stato. Ma quello di Mattarella (chiamato in causa dal filibustering dell’ex premier) è un azzardo ancora più denso di pericoli. Se è vero che è bastato l’annuncio della convocazione di Mario Draghi al Quirinale per far volare in apertura i mercati e costringere lo spread ad andare a nascondersi, è altrettanto assodato che un eventuale fallimento dell’ex presidente della BCE determinerebbe un contraccolpo tale da mandare a gambe all’aria il Paese perché nessuno ci perdonerebbe di aver sprecato l’ultima e più preziosa delle nostre residue risorse.

È presto per trarre delle conclusioni: il lavoro di Draghi è appena iniziato ed è prevedibile che Mattarella abbia preso qualche precauzione per non mandarlo allo sbaraglio. È opportuno però mettere le mani avanti. In un primo momento si era pensato che l’ex presidente della Bce potesse contare sulla maggioranza giallo-rossa con il rientro di Italia viva. Questa base di partenza non è ancora garantita. Ammettiamo pure che il M5S (almeno con la grande maggioranza dei suoi parlamentari) ritorni all’ovile: c’era bisogno di scomodare Draghi per sostituire Giuseppe Conte alla guida di una coalizione capricciosa e inaffidabile? Non bastava Dario Franceschini?

E se i numeri al Senato restassero a rischio, al governo Draghi potrebbe bastare – sul piano politico – di tirare avanti con l’astensione dei partiti di centro destra? Almeno Conte, a Palazzo Madama, aveva ottenuto la maggioranza relativa. Perché l’operazione abbia un senso, Draghi dovrebbe poter contare su di una maggioranza, in ambedue le Camere, ampia e stabile. Ma perché ciò si realizzi, non è sufficiente l’appoggio esterno. Diventerebbe necessario che una forza politica del centro destra ci metta la faccia, entrando a far parte del governo.

Essendo Forza Italia sovra rappresentata rispetto al suo peso effettivo, il solo partito che potrebbe permetterselo, senza pagare dazio con il proprio elettorato, è la Lega. Ma è credibile tenere insieme nella stessa compagine il diavolo (Matteo Salvini, il campione del sovranismo) e l’acqua santa (Mario Draghi, il primus inter pares della élite europea)? È saggio agganciare un aratro ad una Ferrari quando basterebbero un trattore o al limite una coppia di buoi?