«Draghi mi ha fatto un’ottima impressione», aveva detto Di Maio solo pochi mesi fa. Non poteva sapere, correndo a twittare la foto-ricordo, di anticipare un giudizio su cui oggi il Movimento, spaccato, mette in gioco tutto. La fiducia è tutta da conquistare, anche se leggendo oltre la cortina fumogena – tipica dei cori da stadio – le posizioni sono più articolate e forse anche più morbide di quel che qualcuno vuol dare a vedere.

Il Movimento è però irritato da una circostanza, non confermata ma corroborata da più di una voce: Mario Draghi sarebbe stato a colloquio con il Capo dello Stato già 24 ore prima dell’apertura ufficiale della crisi; verosimilmente nella mattinata di lunedì 1 febbraio. Mentre il tavolo di Fico era riunito e le trattative sembravano timidamente avviate a una soluzione, sarebbe stato in piedi un percorso parallelo. Un recovery plan nel senso stretto: un piano B per cui il Capo dello Stato avrebbe sondato in anticipo la disponibilità dell’ex governatore. Circostanza che avrebbe trovato riscontro, agli occhi smaliziati dei Cinque Stelle, nella accelerata dinamica con cui martedì, appena acclarata la disfatta, passano pochi minuti tra le comunicazioni di Fico e la convocazione di Draghi al Colle. Quel giorno in più avrebbe consentito a Draghi di riflettere sulle prevedibili resistenze del Movimento, restìo a votarlo, e di mettere a punto una strategia: offrire a Conte il Ministero degli Esteri, con la Vice Presidenza del Consiglio. Il miglior garante dell’alleanza M5S-Pd-Leu, la chiave di volta di un equilibrio che anche i Dem vorrebbero risolvere in questo modo.

L’ex maggioranza non potrebbe votare contro un esecutivo che vede Conte come Vice premier. Vero, verosimile o falso che sia questo ipotetico scenario, che a noi arriva da diversi parlamentari dell’ex maggioranza contiana, il Movimento sobbolle a fuoco lento. Ma sotto a un coperchio solido: Beppe Grillo tace. Non ha dato alcuna indicazione. E malgrado qualche polpetta avvelenata messa in giro ad arte faccia sapere che Grillo è contrario a Draghi, anzi contrarissimo, nella realtà il fondatore del Movimento non parla. Il suo blog rimane istituzionale, pulito. La sensazione è che il Movimento non esista già più. Ne esistono almeno cinque, e ciascuno va per conto suo. Provano a fare la voce grossa i vertici. Il capo politico Vito Crimi sembra stordito dall’inattesa piega: «Senza di noi non può esserci un Governo e noi vogliamo un Governo politico».

Bruciando tutti, martedì sera aveva ufficializzato il “no” del gruppo all’ipotesi di un esecutivo istituzionale. Tuttavia nessuno tra i suoi preannuncia di votare contro. Sono arrivati anzi dei distinguo di un certo peso, da Giulia Grillo a Giorgio Trizzino, passando per Gianluca Vacca, Manlio Di Stefano e Stanislao Di Piazza. «Ascoltiamo prima quello che ha da dirci Draghi», è la risposta degli aperturisti, «sia mai che voglia fare un Governo politico». E il viceministro uscente Stefano Buffagni: «Mario Draghi ha un profilo inattaccabile, nulla da dire. Così come nessuno può dir nulla sulle competenze di Giuseppe Conte». Ma è ancora tutta pre-tattica. Il Pd fa sapere con Zingaretti che devono «assumere una posizione comune» con M5S. Un tentativo di accordo sul quale Giorgio Gori rilancia: «Siamo al banco di prova dell’europeismo del M5Stelle, della sua affidabilità e del “cambiamento” tante volte professato. Questo passaggio ci dirà anche quale sia la sua compatibilità con le forze riformiste».

È sintonico un europeista come Sergio Battelli, presidente M5S della Commissione Politiche Ue: «Monti nasceva in una fase di austerity, Draghi si colloca in un’altra fase storica: oggi dobbiamo spendere tanto e bene». Una posizione terza è quella di Ettore Licheri, capogruppo M5S al Senato, che già prefigura il voto in aula: «A Draghi non voteremo la fiducia ma voteremo sì a quei provvedimenti che andranno in direzione dei cittadini e No a quelli che andranno contro di loro». Una navigazione a vista che Draghi e Mattarella, e dunque anche il Pd, escludono a priori. Le Cinque Stelle diventano cinque partiti: ci sono gli aperturisti, che voterebbero Draghi già domani. Ci sono i dialoganti, che non lo escludono (Patuanelli). E quelli del No, rappresentati da Crimi. A loro si aggiungono le due ali estreme: i pontieri che prevedono l’uscita dal Movimento per confluire in un gruppo per Draghi – l’operazione sarebbe stata concertata tra Emilio Carelli e i suoi storici confidenti, Gianni Letta e Giovanni Toti – mentre all’opposto, Alessandro Di Battista sistema i sacchetti di sabbia sulla trincea che si è scavato.

«Un No compatto da parte del Movimento non solo sarebbe un gesto responsabile nei confronti degli italiani, ma aprirebbe praterie di dignità e, perché no, anche di governo», scrive il capo ultras. «Draghi è un banchiere e la mia opinione su di lui è molto negativa». Qui bisogna stare attenti perché, dopo i recenti regolamenti di conti, a Di Battista si è affiancato Davide Casaleggio, che continua ad avere in mano la piattaforma Rousseau. L’arma finale. Ed ecco instillarsi il veleno dell’algoritmo segreto: «Quella del voto su Rousseau è un’ipotesi da non trascurare. Dobbiamo aspettare che prima ci sia un contenuto reale da sottoporre, votare su una persona soltanto mi sembra riduttivo», avrebbe detto Crimi durante la riunione del gruppo ieri. Il Movimento è balcanizzato, servirebbe un leader capace di tenerlo insieme.

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.