Letterariamente parlando, l’avvocato Giuseppe Conte è un personaggio fantastico. Fate finta per un attimo che quel che è accaduto dalle elezioni ad oggi non sia reale ma l’abbiate letto in un romanzo o visto in un come il film Il giardiniere con Peter Sellers del 1979. Chance era un giardiniere con leggero handicap mentale che l’aveva costretto a vivere sempre dentro un giardino, che curava con austera competenza ma incapace di andare oltre la visione del mondo di una patata.

Si esprimeva per metafore agricole sulle stagioni, la potatura e la siccità e diventò il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti mentre una disperata Shirley MacLaine tentava vanamente di fare sesso con lui, interessato soltanto alla sequenza dei canali televisivi. Partiamo dalla fine – provvisoria ma forse definitiva – dell’avvocato Giuseppe Conte: era solo, rabbioso e disperato sulla piazza davanti a Palazzo Chigi dove esprimeva i suoi concetti agricoli, o forse politici. Parlava al movimento, al Pd e alla sinistra, al popolo dei clandestini chiamati alla resistenza, sotto la sua leadership. Incredibile, ma assolutamente vero.

Quella scena appena vista costituisce il capitolo finale dell’uomo che un giorno aveva incontrato per strada un tizio che lo aveva presentato a un tale che gli aveva detto senti, perché non vieni con noi, andiamo al Quirinale, ti presentiamo al capo dello Stato e poi da cosa nasce cosa e infatti era nato un governo. Anzi due. Era pronto per il tre. Mattarella, se ricordiamo bene, era incazzato nero quando se lo trovò davanti. Era successo infatti che i bravi ragazzi del New York Times avevano controllato il curriculum inviato alla Camera per candidarsi ad un ufficio amministrativo. Il quotidiano americano allora ce l’aveva con lo sconosciutissimo avvocato Giuseppe Conte perché era stato indicato come candidato a guidare un governo di estrema destra.

Negli uffici romani del New York Times il caporedattore Jason Horovitz aveva scoperto qualcosa di comico: l’avvocato, non sapendo allora come oggi, la lingua inglese, aveva frequentato i corsi estivi della New York University e poi li aveva presentati come un titolo accademico. Sergio Mattarella quando se lo ritrovò davanti lo guardò come un varano, il lucertolone – o drago – di Komoto e gli sibilò qualcosa come spero che il suo curriculum sia stato aggiornato. Figura di merda. E allora tutta la sinistra rideva di Conte perché lo sconosciuto era il candidato a governare insieme agli odiati M5S e all’odiatissimo Salvini.

Anche alla Duquesne University di Pittsburgh smentivano di aver mai visto il signor Conte, come all’University of Malta, all’Internationales Kulturenstitut di Vienna dove precisarono che nel loro istituto si insegna e si apprende soltanto in tedesco. Ciò che vogliamo sottolineare è che quando emersero queste vere o presunte gaffe, tutta la stampa si gettò a capofitto nella caccia all’uomo allora considerato di estrema destra. Perché l’incredibile personaggio uscito dal nulla era allora destinato a governare come prestanome della coppietta Salvini-Di Maio i quali, sbarrandosi la strada a vicenda, avevano scelto uno sconosciuto avvocato di Volturara Appula, da un assistente di studio dello stesso avvocato, un certo Bonafede Alfonso, DJ per vocazione ma aspirante ministro della Giustizia.

Bonafede era un pentastellato e conosceva Di Maio e così finirono tutti al Quirinale in un set cinematografico che ricorda l’incipit del Cavaliere Inesistente in cui Carlo Magno passa stancamente in rassegna i suoi capi militari a ciascuno dei quali chiede: “Ecchisietevoicavalieredifrancia?” E quelli, ad uno ad uno, si presentavano alzando la celata, salvo l’ultimo che restò con la celata abbassata. «E perché non fate vedere il vostro volto?» chiese Carlo Magno. «Perché io non esisto, sire», fu la risposta alla quale il capostipite dei Carolingi non ebbe da obiettare, avendolo il sole reso assonnato e indifferente. Quando il cavaliere Conte si presentò al Presidente, le cose andarono più o meno nello stesso modo: «Ecchissietevoi, candidato al governo?». «Piripì-perepè, poropò-purupù» rispose il candidato. «Ah, va bene – rispose il Presidente – magari la prossima volta cerchiamo di essere un po’ meno paraculi, vero?». «Scusi non accadrà mai più», assicurò il candidato.

Tutto accadde in una atmosfera onirica e grottesca, unica al mondo e subito dimenticata, o meglio lobotomizzata dal preciso momento in cui il cavaliere senza celata fece il gran pernacchio al capo leghista in Senato provocando così il fenomeno del rimangiamento della parola data da Zinga, l’uomo che mai e poi mai e poi ancora mai, e – se non l’avete ancora capito – mai, si sarebbe abbassato a un’alleanza coi penta siderali, manco se l’ammazzavano. Accadevano – ed era solo pochi mesi fa – eventi magnifici o almeno non previsti dallo zodiaco, dal calendario di frate Indovino e dalla Cabala.

Il Conte, come il Golem di Praga, si era levato in tutta la sua fragilità gigantesca dai piedi d’argilla e tuonava, tuonava, anzi farfugliava con una loquacità che più d’una volta gli aveva sconnesso i congiuntivi, non tanto per superficialità dialettale residua, ma per una reale mancanza di considerazione per la differenza fra ciò che è ipotetico (congiuntivo) e il mondo reale dell’indicativo. Un cianfruglio, un gorgoglio indifferenziato, una torbida accozzaglia di finali di verbo e di partita. Oggi Conte è diventato un monstre molto complicato, ambizioso, pericoloso, ferito a sangue nell’identità miracolosa che gli era piovuta dal cielo come un pesce sganciato da un gabbiano in alta montagna.

Abbiamo assistito alla sua metamorfosi da buon manichino a servizio della strana coppietta che lo ha generato, al nuovo Arturo Ui circondato da un manipolo di esternatori-social, da tweettaroli di borgata, facebookisti da malincontro. Alla metamorfosi parteciparono unanimi le televisioni di chiacchiericcio (quelle in cui a qualsiasi domanda venga dallo studio l’inviato sotto la pioggia risponde “Assolutamente sì”) dove si assisteva all’imposizione subliminale e sublinguale dell’immagine del Conte, che si presentava come salvaschermo a tutto, anche al posto delle previsioni del tempo. Il meteorologo diceva nebbia in val Padana e sullo schermo si vedeva la solita clip – sempre quella – in cui Giuseppe Conte pensoso avanza fra specchiere in un Palazzo Chigi adatto a Re Sole, con telecamera a favore finché non si siede da solo davanti a una dozzina di teleschermi ciascuno connesso con un grande della terra, alla peggio un nano.

Sempre uguale, manicurato al dettaglio e totalizzante. Ovunque. Comunque. Dossierato. Ha sempre con sé seimila pagine stampate con dentro il nulla dettagliato. Discorsi prolissi e pontificali, ma detti con concessione alla modestia, privi di qualsiasi significato e peso specifico, ma da condividere per esaustione. Il monstre era nato, non dipendeva più dalla strana coppia che per sua fortuna si era divisa e la fata turchina, con un bacio notturno aveva trasformato il burattino in un bambino vampiro azzimato, impomatato, profumato di barberia. Un po’ era il suo DNA, giustamente ambizioso (nulla contro l’ambizione, ci mancherebbe) e un po’ il guaglione miracolato, della famiglia dei Nuovi Guaglioni della Repubblica, uno che vendeva gelati allo Stadio, un altro che azionava il macchinario da DJ, tutti con quell’espressione stupìta, quella crisi identitaria in corso. Ora il piccolo colosso, l’abbiamo visto, sa fare la faccia feroce.

Ha sbagliato l’apertura e gli hanno fatto lo scacco del barbiere, lo ha fregato Calandrino Renzi che gli ha dato a bere di aver trovato la pietra elitropia che rende invisibili e lui se l’è bevuta e si è ritrovato fuori da Palazzo Chigi. Il cerchio si chiude: anche Chance il Giardiniere si era trovato fuori dal suo giardino, nel mondo che non aveva mai visto. E una bella signora lo investe, lo soccorre, lo adotta e lo introduce nel salotto di quelli che contano. Conte era arrivato ai supremi salotti dorati con stucchi e tendaggi, più un Presidente americano che gli dà una manata sule spalle storpiandone per sempre il nome, tanto chi se ne frega: e dove si ritrova? In mezzo alla piazza, davanti a Palazzo Chigi dopo un’ora e mezza col Drago che gli deve aver fatto capire come gira il mondo.

Non si era mai visto un nuovo Presidente incaricato che va dal predecessore e gli spiega come gira il mondo e come si dovrà comportare lui, d’ora in poi. È stato un dialogo franco, senza peli sulla lingua. Dunque, non amichevole. E infine quella sortita davanti alle telecamere in cui – raccomandando di seguire le prescrizioni del Quirinale (cosa che tutti fanno simulando fronde e borbottii) si improvvisa capo dei Cinque Stelle (“agli amici del movimento dico…”) e ufficiale di collegamento col PD, Leu, chiunque. Un attacco di gollismo (nel senso di De Gaulle) pugliese? Gli è forse apparso Padre Pio? Avrà dietro di sé i soliti poteri forti, o l’intelligence che lui ha curato con senso familistico? E poi, tutta quella gente che lo consola, lo consiglia, lo conforta, lo confonde. Vai a sapere.

Certo, gli hanno rubato il giocattolo: il suo partito mai nato del nove per cento che esiste, se esiste, come il Gatto di Schroedinger, soltanto finché non apri la scatola per vedere se è morto o vivo. Il suo partito infatti esiste soltanto se ci sono le elezioni. E non essendoci le elezioni, il palloncino si gonfia con immaginabile frustrazione da impotenza. Dev’essere molto doloroso e frustrante, lo diciamo con sincero rispetto. Ma anche con allarme. Che farà costui, ora che gli hanno smontato la testa? Bisognerà vedere nella prossima puntata se il nostro Conte ritrova la pietra filosofale, il filo d’Arianna o quel che accidenti gli occorre per non finire sulla Luna, sparato da un colpo di cannone come un famoso barone dal nome impronunciabile.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.