1. Scatola, scatoletta e apriscatole, scatoloni. Si può ricorrere a questa prosaica “escatologia” per valutare – in chiave di politica del diritto – le dinamiche di un’elezione che ha portato al Quirinale un nuovo Presidente, ma non un Presidente nuovo: «la scelta migliore e la peggiore che potesse essere fatta», come ha scritto un costituzionalista di vaglia (Antonio Ruggeri), eccedendo nel paradosso. Vediamo perché.

2. Scatola. Le istituzioni repubblicane sono il contenitore della dialettica politica. Le regole costituzionali servono a questo: organizzare la democrazia affinché la lotta politica non risponda esclusivamente a rapporti di forza e alla logica annientatrice dell’amico/nemico. Il rispetto delle forme che scandiscono le procedure e le decisioni istituzionali è il sismografo del corretto rapporto tra poteri dello Stato.

Ecco perché è sempre un ottimo segnale quello di un Parlamento in seduta comune che detta la soluzione a un rebus apparentemente insolubile, invece di subirla. Perché questo è accaduto: quelle preferenze in progressione numerica per Sergio Mattarella, espresse dalla terza votazione in poi (125, 166, 366, 387 fino ai 759 voti finali), hanno rivelato una razionalità politica nei grandi elettori smarrita tra i leaders di partito. Tramite loro, è la Costituzione dei poteri che si è ripresa la scena: spetta infatti a deputati, senatori e delegati regionali la scelta istituzionale del Presidente della Repubblica (art. 83 Cost.); non ai partiti, chiamati «a determinare la politica nazionale» (art. 49 Cost.) che è tutt’altra cosa. Titolari del potere formale, hanno saputo esercitarlo per davvero, restituendo centralità al Parlamento. Ancora, è la Costituzione a esigere una figura presidenziale non divisiva. I grandi elettori – diversamente dai dilettanti allo sbaraglio inventatisi king-makers – hanno saputo trovarla, obbedendo a un’istanza realistica condivisa dalla maggioranza che la Costituzione predilige: «i due terzi dell’assemblea» (art. 83, comma 3).

Ci sono riusciti costruendo consenso sul nome di Mattarella attraverso il dialogo e la parola che sono gli strumenti del parlamentare, mentre fuori dall’aula si assisteva al gran varietà della boutade, del tweet, del talk, della chiacchiera. Un risultato, peraltro, raggiunto in tempi costituzionalmente congrui: prima della scadenza del Capo dello Stato in carica (art. 85, comma 2), dopo sei giorni e sette votazioni complessive, in linea con le passate presidenziali che – con le sole eccezioni delle elezioni di Cossiga e Ciampi – si sono sempre concluse non prima del quarto scrutinio. L’invito sdegnato e perentorio a “fare presto”, oltre che fuori luogo, rivela nel mondo dell’informazione una dannosa omologazione alla logica social, mimata da certe adrenaliniche maratone televisive. La buona politica costituzionale, invece, ha un suo ritmo ragionevole che va preservato, non aggredito a furor di popolo.

Si è detto: è stata una «elezione dal basso». È un giudizio sbagliato perché capovolge la giusta prospettiva costituzionale, testimoniando così la disabitudine alla distinzione tra istituzioni e forze politiche che, sola, impedisce la degenerazione partitocratica. E proprio perché – costituzionalmente parlando – la forma è sostanza, il Capo dello Stato uscente ha inteso incontrare i rappresentanti del collegio elettorale andati a informarlo del voto che avrebbero espresso. Ed è «al rispetto delle decisioni del Parlamento» che il Presidente rieletto ha reso omaggio, accettando l’incarico. Quanto a investitura, dunque, il bis di Mattarella non è la replica del bis di Napolitano, che fu invece implorato dai vertici di partiti e Regioni che, poi, telecomandarono un collegio elettorale avvitato su sé stesso, fino a quel momento capace solo di giocare a birilli con i candidati di turno. Ecco allora la prima buona notizia: sottoposta a una così difficile prova di resistenza, la scatola istituzionale ha mostrato una rassicurante tenuta.

3. Scatoletta e apriscatole. Eppure, non più tardi di quattro anni fa, era stata ridimensionata a scatoletta (di tonno) destinata all’apriscatole populista e sovranista. Ci hanno riprovato perché, come lo scorpione della favola di Esopo, certi partiti rispondono alla propria originaria natura. Fallendo, e questa è la seconda buona notizia. Centrodestra e centrosinistra sono “campi larghi” inesistenti, se non in chiave tattica ed elettoralistica. La loro fasulla contrapposizione cela lo scontro autentico tra rinnovato europeismo e sovranismo populista. Tra chi mira a un’Unione europea più integrata e chi alla rinascita di una piccola Heimat alla presidenza della quale porre «un patriota». Tra chi vuole uno spazio europeo tracciato dalle regole dello Stato di diritto e chi, invece, guarda con invidia alle “democrature” europee condannate dalla Corte di giustizia e dalla Corte dei diritti umani.

La posta in palio è la stessa democrazia liberale, che può uscirne rigenerata o affondata. Attraverso l’elezione al Quirinale, si è tentato di ricomporre il quadro politico d’inizio legislatura. Se possibile, in peggio: perché è autoevidente che, in una democrazia liberale, il vertice dell’intelligence non può essere eletto al Quirinale, fosse pure la prima Presidente donna (per quanto «in gamba», come si è maschilisticamente precisato). La saldatura tra Lega, Fratelli d’Italia e M5S non è riuscita. Delle conseguenti fratture all’interno dei partiti e delle loro artificiali coalizioni c’è solo da rallegrarsi: porteranno a più credibili ricomposizioni. Nel frattempo, l’affidabilità europea del Paese ritrova al Quirinale ed a Palazzo Chigi i suoi presìdi, cui si affiancano – in una fortunata congiunzione astrale – il nuovo Presidente della Corte costituzionale e la Guardasigilli in carica: sarebbero stati entrambi un’ottima alternativa per la Presidenza della Repubblica; saranno entrambi una sicura barriera al giustizialismo penale che del populismo è un’inevitabile appendice.

4. Scatoloni (presidenziali). La rielezione di un Presidente uscente resta, tuttavia, una sgrammaticatura costituzionale: quegli scatoloni già confezionati per il trasloco, che escono e rientrano attraverso le sliding doors del Quirinale, ne sono il segno. Lo si è già scritto su queste pagine (Il Riformista, 15 gennaio): per quanto da evitare, formalmente la Costituzione non la vieta, precludendo semmai una rielezione condizionata a una scadenza anticipata del mandato presidenziale. Eppure il problema esiste, aggravato dal fatto di riproporsi per la seconda volta consecutiva: l’eccezione che si avvia a diventare consuetudine è un’alterazione dell’equilibro tra i poteri. I leoni da tastiera sbraitano in rete la doppia verità di Sergio Mattarella. Né mancano editoriali sulla Pravda italiana che denunciano l’astuta strategia avviata con la nomina di Mario Draghi a Palazzo Chigi, riletta come scacco matto al suo più accreditato concorrente nella corsa al Quirinale. Il moralismo non si smentisce mai: trasforma sempre un problema di regole in stigma a condotte personali.

La verità è un’altra. Sono stati i grandi elettori a decidere. Il Presidente rieletto ha accettato, con spirito autenticamente repubblicano, la scelta parlamentare. Conoscendolo, le insinuazioni sul suo conto sono irricevibili. Ma proprio perché lui stesso ha posto un problema già sollevato da altri Presidenti egualmente contrari alla rielezione (Segni, Leone, Ciampi, Napolitano), quel problema va affrontato e risolto. Lo strumento è la revisione dell’art. 85 Cost. La soluzione non è il divieto di rielezione immediata (poco giustificato dal già lungo intervallo di sette anni tra il primo e l’altro eventuale mandato) né l’introduzione del limite di due mandati (che incapsula la possibilità di un’immediata rielezione), bensì un divieto tout court: chi è stato eletto al Quirinale «non è rieleggibile». È quanto prevede il ddl costituzionale n. 2468, a firma dei senatori Parrini, Zanda, Bressa, inclusivo anche della conseguente abrogazione del c.d. semestre bianco. Presentato intempestivamente il 2 dicembre scorso, e per questo fatto oggetto di malevoli interpretazioni, oggi si rivela per ciò che è: una riforma necessaria. Approvandola ora, non sarà a sanzione di nessuno. E se nell’ultima corsa al Quirinale la rielezione ha rappresentato una preziosa exit strategy, in quelle future verrà meno tale riserva mentale, costringendo tutti a una soluzione non emergenziale.

5. Scatoloni (referendari). Resta da dire degli scatoloni di cui nessuno parla: quelli contenenti le firme per i referendum su giustizia, eutanasia legale, cannabis depenalizzata. È l’ultima buona notizia che ci regala l’esito ordinato di queste elezioni presidenziali. Evitato lo scioglimento anticipato delle Camere trascinato da un’irrisolvibile crisi del governo Draghi, il voto abrogativo popolare non slitterà al 2023: saremo regolarmente chiamati alle urne in primavera sui quesiti che la Consulta giudicherà ammissibili il 15 febbraio. Ne riparleremo.