La “battaglia del Quirinale ”e la crisi del sistema dei partiti. Il Riformista ne discute con Emma Fattorini, storica, scrittrice, già senatrice del Partito democratico, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma.

Ennesima fumata nera nell’elezione del nuovo Capo della Stato. Come la vede?
Nella vita pubblica come in quella privata più che il cosa si fa, conta il come lo si fa. Così affermano tutte le grandi tradizioni spirituali della storia dell’umanità. Così più che il nome è il come si sta scegliendo il nome, che diventa importante. E direi purtroppo, perché lì si annida il disastro.

Un giudizio molto duro…
Proprio quando la “Politica” rivendica il suo protagonismo, la sua rinascita, misurandosi con un banco di prova così importante, per dimostrare di non essere stritolata dalla morsa ferale dei “tecnici”, dei “poteri forti”, delle pressioni internazionali e dei social, ebbene proprio allora la politica sembra più morta che mai. Forse, anche per queste aspettative di resurrezione- come in tutte le idealizzazioni palingenetiche – si è finito per enfatizzare la scelta del Presidente della Repubblica, ingigantendone la portata e il ruolo. Certo il suo ruolo, per le mille ragioni che sappiamo, è sempre più importante e di fatto ci porta a quel semipresidenzialismo che molti di noi vorrebbero e che ci fa rimpiangere la mancata riforma costituzionale.

Non è che tra un rimpallo e l’altro, l’Italia si sta giocando Mario Draghi? Il vento è cambiato?
Certo la figura, a sua volta palingenetica, di Draghi e il terrore di perderlo ci fa temere di non averlo più né al Governo né al Quirinale. Ipotesi che molti di noi, e giustamente, temono come la peste. Da cui l’anomalia costituzionale di come “sciogliere” se stesso. Certo, e soprattutto, il bisogno dei politici, di essere rassicurati molto più dei poveri, vituperati, peones, di mantenere un ruolo di governo (eccetto la Meloni che, infatti, si permette di proporre nomi bipartisan come Belloni e Cassese, antropologicamente, sideralmente, distante dalla sua “cultura”). Da tutto ciò ne deriva il bisogno di combinare il nome dell’inquilino di Palazzo Chigi e quello del Quirinale, per potere controllare il primo, intestandosi il secondo: con il risultato che questa kermesse diventa uno shanghai per cui se si sfila un ago, pazientemente collocato, poi casca giù tutto. Ma appunto era una rivincita della politica con tante, troppe aspettative, che ha fatto riemergere il disastro assoluto in cui era precipitata già con la fatale risposta al fatidico Papeete fino all’abbraccio mortale tra Pd e 5 Stelle.

Con quale esito?
Una crisi che si è mimetizzata nell’unanimismo dell’unità nazionale sotto il mantello di un Draghi – Nembo Kid. Una politica che ora si vendica di se stessa. Che ha rivelato la debolezza dei propri leader, e dei propri stessi partiti, che tifano al loro interno nomi diversi e trasversali allo schieramento opposto, in una specie di dedalo da cui non si trova più l’uscita. Lo spettacolo di questi giorni è disarmante e metonimico: Conte che, con affanno e il capello tinto di fresco, corre tra Camera e Senato, cambiando idea due o tre volte, nel pur breve percorso, è metafora della sua “vita politica”, Salvini che ostenta sicurezza e ottimismo e tiene bloccato tutto in attesa di un nome condiviso che non sia quello di un pericoloso bolscevico come il noto compagno Casini e, infine, Letta il più sobrio, ma anche perché passivizzato nell’attesa, messo in crisi dai suoi stessi alleati e blindato da Franceschini da una parte e Renzi dall’altra. Una visione surreale, per fortuna vista solo dagli appassionati e quasi del tutto ignorata dalle persone normali, come sembrano dirci gli indicatori che misurano anche quello.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.