Nell’evoluzione del sistema dei partiti della V Repubblica dobbiamo in sostanza distinguere la lunga fase che dal 1965 va fino al 2012, e che è segnata dalla bipolarizzazione imperniata soprattutto su gollisti (quasi sempre egemoni nel proprio campo) e socialisti (che ben presto lo diventano rispetto ai declinanti comunisti), e quella che è iniziata dal 2017, ma incubata già in precedenza, tra europeisti e sovranisti in un quadro molto più destrutturato e di non facile prevedibilità per il futuro, soprattutto nei riflessi sulle elezioni legislative.

A partire dalla prima elezione diretta del 1965 il sistema tende a strutturarsi intorno a due poli ben delineati. Scontata l’egemonia sul centrodestra del generale de Gaulle (ma ovviamente in prospettiva c’era la legittima domanda su cosa sarebbe accaduto in quel campo dopo la sua dipartita), la candidatura unitaria di Mitterrand del 1965 anticipa la creazione di un partito a vocazione maggioritaria della sinistra non comunista, invertendo il rapporto di forza col Pcf. Mentre le elezioni presidenziali del 1969 costituiscono poi a sinistra una parentesi in cui il mancato accesso al ballottaggio rilancia rapidamente Mitterrand nella costruzione del nuovo Ps (Congresso di Epinay del 1971 e Assises du socialisme del 1974), l’affermazione di Pompidou dimostra che a destra si può uscire dal carisma di De Gaulle stabilizzando un’organizzazione efficace. Le presidenziali anticipate del 1974 favoriranno sul momento il centrodestra liberale dell’Udf a causa delle momentanee divisioni dei gollisti, ma poi in prospettiva questi ultimi, meglio organizzati, confermeranno il loro primato.

L’irruzione dell’estrema destra del Fn nel ballottaggio del 2002 a causa della frammentazione della sinistra segnala però già un problema politico: il Ps post mitterrandiano fatica a trovare un suo equilibrio, a sopravvivere al carisma del fondatore. Mitterrand, da repubblicano non socialista, porta il Ps nello spazio europeo, specie dopo il primo biennio presidenziale, agganciandosi al cattolicesimo democratico di Delors e al municipalismo di Mauroy, ma poi quell’eredità si disperde, Non a caso si divide duramente sul referendum del 2005 sulla Costituzione europea, che fa emergere in maniera chiara quella che sarebbe stata anni dopo la frattura più rilevante per l’intero sistema politico. Un’anticipazione, peraltro, si era già avuta col Referendum sul trattato di Maastricht del 1992 che aveva visto già una grande frattura trasversale, opponendo da un lato Mitterrand, Giscard e Barre per il sì contro Le Pen, comunisti e spezzoni della sinistra (Chevènement) e della destra moderata (Séguin, Pasqua) per il No. Nel contempo anche l’europeismo di Chirac, uscito vincitore dall’anomalo ballottaggio con Le Pen padre, risultava egemone nei post-gollisti dopo la sua dipartita e quindi il centro-destra moderato restava senza grandi difese rispetto alla successione familiare all’interno del Fn che ne dava un’immagine più rassicurante.

Nella vittoria di Hollande del 2012 si nascondevano i germi della disfatta successiva: il cosiddetto “fatto maggioritario”, la costruzione di una maggioranza solida in scia al successo del Presidente, diveniva poi contestato ad opera della sinistra interna durante il quinquennato, sempre più condizionata da posizioni anti-europee. Nel contempo anche i Républicains, eredi dei gollisti, non riuscivano a trovare un linguaggio convincente tra la tradizionale moderazione e l’esigenza di riprendere i voti dell’estrema destra. Le Presidenziali 2017, col ballottaggio Macron-Le Pen hanno quindi segnato un passaggio importante, una sorta di reset di sistema sulla linea di frattura europeisti-sovranisti al posto di quella tradizionale destra-sinistra. Cosa ne è comunque anni dopo?

Per quanto riguarda la Presidenziali tutto lascia presagire che quella frattura sia ancora determinante, per quanto almeno formalmente dopo la pandemia e la guerra in Ucraina il discorso antieuropeo sia fatalmente più moderato, che si assista quindi ad una sostanziale conferma di quanto accaduto nel 2017. Abbiamo invece meno certezze su quale sistema dei partiti scaturirà dalle legislative. Peraltro non ne è certa la data perché il Presidente neo-eletto potrebbe sciogliere immediatamente accorciando la durata della campagna di qualche settimana rispetto alla scadenza prevista per metà giugno. Da una parte, infatti, c’è la ferrea logica anti-coabitazionista del modello coerentemente adottato nel 2000 (quinquennato presidenziale ed elezioni legislative in stretta sequenza delle prime) che sin qui non ha mai mancato di produrre una maggioranza presidenziale assoluta all’Assemblea Nazionale.

Dall’altra però va rilevato che il livello di istituzionalizzazione del partito presidenziale Lrem è ancora molto basso, decisamente inferiore a quello che il partito socialista e quello gollista garantivano ai loro Presidenti. La volontà di non restare prigioniero di notabili locali e di correnti organizzate ha portato a una modalità centralizzata basata sulla rete con una notevole volatilità degli aderenti che si è rivelata poi assai debole al momento di affrontare elezioni locali e regionali. Secondo l’analisi di Rémy Lefebvre su Esprit di gennaio-febbraio il numero di aderenti tuttora attivi sarebbe di circa 10mila rispetto ai 500mila di maggio 2017. Per questo tale autore ha parlato di “partiti personali intermittenti” inserendo in tale categoria anche il partito di Mélénchon, Lfi.

Le elezioni regionali del 2021, per queste ragioni, avevano registrato una momentanea ripresa di Repubblicani e Socialisti. Tuttavia essa è sembrata essere più una sopravvivenza di un radicamento passato che non una promessa di futuro, visto l’esito modesto che sembra accompagnare la candidatura di Pécresse e ancor più quella di Hidalgo. Non sembra quindi implausibile che la nebulosa di forze che a partire da Lrem costituisce oggi la maggioranza presidenziale possa ripetere, magari con numeri un po’ ridimensionati, l’esito del 2017 in seguito alla probabile rielezione di Macron. Trattandosi del secondo mandato, comunque non ripetibile, difficile dire però che cosa ciò comporterà sul lungo termine rispetto al sistema dei partiti. In ogni caso se i partiti sembrano sempre più deboli, le istituzioni restano forti, in grado di surrogare in gran parte la forza dei primi. Perché appare comunque meglio avere istituzioni forti con partiti deboli che non avere sia istituzioni si partiti entrambi deboli.