All’improvviso lo spettro che terrorizzava l’occidente pochi anni fa, quello che pareva fugato ed era stato invece forse solo esorcizzato, è riapparso più battagliero e incombente di prima. Si parla di quello che è stato definito populismo, del quale sino a poche settimane fa le elezioni francesi si presumeva avrebbero decretato l’inesorabile declino. Quanto siano cambiate le cose in appena un mese lo si deduce facilmente mettendo a confronto i sondaggi di allora e quelli di oggi in vista del primo turno delle elezioni presidenziali, domenica prossimo, e poi del ballottaggio di domenica 24 aprile.

L’8 marzo scorso i consensi del presidente uscente Emmanuel Macron si attestavano al 33,5% nel primo turno, quello che vedrà in lizza tutti i candidati. La principale sfidante, Marine Le Pen, volto francese del populismo europeo, non andava oltre il 15%: oltre 18 punti di scarto. Due giorni fa Macron era sceso al 28%, Le Pen era arrivata al 23%, mettendo definitivamente fuori gioco l’altro candidato di estrema destra, il giornalista Eric Zemmour che nei mesi scorsi era sembrato sul punto di sorpassare Le Pen e si trova ora al 9%, quarto tra i 12 candidati in lizza. Prima di lui, al 15,5% il leader della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon. Si sa che i dati del primo turno non sono considerati in sé troppo significativi dal momento che è al secondo turno che Macron può fare il pieno dei voti antifascisti e antipopulisti, inclusi quelli di molti elettori di destra, ed è grazie a quel “voto utile” che Macron dovrebbe avere comunque la vittoria in tasca. Anche da questo punto di osservazione, però, la sterzata brusca registrata dai sondaggi è a dir poco allarmante. Un mese fa le intenzioni di voto per il ballottaggio fra i due migliori piazzati di domenica prossima attribuiva al presidente uscente il 61% e a Marine Le Pen il 39%.

Oggi le quotazioni sono del 53% contro il 47% e secondo alcuni la forbice potrebbe essere ancora più stretta. L’elemento che desta maggiore preoccupazione nel quartier generale di Macron è proprio il voto degli elettori di Mélenchon. Stando ai sondaggi oggi solo il 31% di loro voterà Le Pen, contro il 72% della base di Zemmour e il 28% di quella della quinta piazzata, Valérie Pécresse, che domenica prossima potrebbe arrivare all’8% e che incarna quella “destra repubblicana” che rifiuta in blocco le tentazioni populiste. Il sospetto però è che più del 31 per cento degli elettori di France Insoumise, la formazione di Mélenchon, pur non confessandolo possano invece schierarsi con Le Pen in funzione anti Nato. E se invece del 31 fossero il 40 o il 50, allora Le pen potrebbe avvicinarsi moltissimo a Macron. Si arriva così al nodo centrale della imprevista e repentina resurrezione non solo della leader del Ressemblent National (come ha ribattezzato nel 2018 il Front National fondato da suo padre) ma della destra populista in Europa: la guerra in Ucraina.

Marine Le Pen aveva impostato comunque una campagna elettorale. Aveva sfruttato la presenza dell’ “estremista” Zemmour per accreditarsi come leader decisamente più moderata. Aveva rinunciato all’aspetto più temuto del suo precedente programma, l’uscita della Francia dall’euro e infranto, col cambio del nome del partito, gli ultimi legami con il padre. Nell’ultimo anno la leader della destra populista francese ha anche modificato radicalmente la propria immagine, rendendola molto più rassicurante. Ha parlato più dei suoi adorati gatti che degli immigrati, ha smesso gli abiti scuri per sfoggiare colori pastello, ha rischiato di slogarsi la mascella sorridendo a tempo pieno. La svolta di linea e d’immagine le ha permesso di avere la meglio sulla minaccia Zemmour ma, sino a poche settimane fa, non le aveva fatto guadagnare terreno nei confronti di Macron, nonostante lo scarso appeal di un leader irrimediabilmente freddo e incapace di scaldare i cuori dell’elettorato. Poi è arrivata la guerra ed è cambiato tutto.

In tutta evidenza in Francia – unico Paese occidentale importante che negli anni sessanta, sotto la guida di De Gaulle, decise di uscire temporaneamente dalla la Nato – l’atlantismo radicale della Ue e dei singoli governi è molto meno popolare tra gli elettori di quanto non sia nelle élites, esattamente come succede in Italia. Le accuse di essere “putiniana” rivolte a Marine Le Pen, se i sondaggi hanno ragione, hanno pesato molto meno della sua ostilità alle sanzioni, che colpiscono i francesi e gli europei tutti e non solo i russi. Si assiste così a una singolare torsione per cui l’identificazione del padre e finanziatore del populismo di destra europeo, Vladimir Putin, con una specie di male assoluto avvantaggia proprio le forze meno ostili all’autocrate russo, quelle appunto della destra populista. La Francia non è infatti un caso isolato.
Il 3 aprile scorso si è votato in Ungheria e per la prima volta ad alcuni commentatori e analisti è sembrata possibile la sconfitta di Orbàn e del suo partito Fidesz.

Per la prima volta l’opposizione si presentava unita, con un candidato credibile, di destra ma non populista credibile, l’economista Péter Màrky-Zay. In realtà le possibilità di una sconfitta di Orbàn sono sempre state molto esigue. Sembrava invece possibile una vittoria di misura, senza la conquista dei due terzi del Parlamento, necessari per cambiare a piacimento la Costituzione. I risultati, invece, hanno sancito una vittoria schiacciante di Orbàn, per la quarta volta consecutiva. La sua coalizione ha ottenuto il 53% dei voti e 135 seggi parlamentari contro i 56 dell’opposizione unita. Il leader ungherese ha impostato la campagna elettorale, al solito, sulla paura dell’immigrazione ma anche, dopo l’invasione dell’Ucraina, sulla promessa di tenere il suo Paese al sicuro, lontano dalla guerra e dalle sue conseguenze economiche. Una spinta che probabilmente spiega anche l’avanzata di Le Pen in Francia, non “grazie” al suo putinismo ma “nonostante” il suo putinismo.

In Italia la situazione è più complessa. Anche da noi il primo partito nei sondaggi era uno di quelli fino a ieri più vicini a Putin, FdI, ma qui Giorgia Meloni si è spostata su una posizione assolutamente allineata a quella della Nato, probabilmente sperando così di affermarsi come credibile forza di governo soprattutto nelle altre capitali occidentali, prima fra tutte Washington. Una vittoria di Marine Le Pen, i cui complessivi effetti deflagranti andrebbero molto oltre quelli della Brexit, inciderebbe però senza dubbio anche sulla oscillante linea di FdI, per non parlare di quella dell’altra forza della destra populista, la Lega di Salvini. Sin qui però si tratta di conti quando ancora non si avverte davvero il morso di una crisi economica che sarà senza dubbio pesante ma potrebbe diventare pensantissima. E si sa che per le spinte populiste o autoritarie nessun brodo di coltura è più efficace delle grandi crisi economiche e sociali.