Sono passati quasi sei anni dal referendum che bocciò la riforma renziana della Costituzione e trasformò il tema dell’innovazione istituzionale in un tabù. Oggi, timidamente, se ne ricomincia a parlare. Addirittura ritorna la proposta di eleggere direttamente il vertice dell’esecutivo. Che si torni a parlare è una buona notizia. Ma parlare ovviamente non assicura che si arrivi a un qualche risultato. Con le parole siamo sempre stati bravissimi. Di riforme poi si discute almeno dalla fine degli anni 70 del secolo scorso. Cinquanta anni senza alcun risultato significativo. I problemi rimangono sempre gli stessi, mentre la pratica costituzionale si allontana sempre di più dal modello costituzionale, che l’evoluzione storica ha reso ormai impraticabile.

I costituenti sbagliarono dunque? No. I costituenti furono consapevoli e pragmatici e fecero una scelta adeguata al momento storico. Magari noi lo fossimo altrettanto. Furono consapevoli perché a nessuno di essi sfuggiva, sulla base dell’esperienza dei quasi un secolo dalla nascita stato unitario, che i problemi istituzionali, in Italia, fossero instabilità, predominio delle fazioni partitiche, processi politici nei quali la forza dei vari protagonisti della vita politica non stava nel potere di fare, ma in quello di disfare. Come ricordò Costantino Mortati in Assemblea costituente «basta infatti il ritiro di un gruppo, anche piccolo, dalla coalizione che ha dato vita al governo, perché questo governo debba cadere». Consapevoli, ma anche pragmatici, i costituenti. Quel destino non si poteva mutare, perché i contraenti del patto costituzionale non si fidavano l’uno dell’altro. L’Italia era sulla frontiera della guerra fredda, con un blocco social-comunista quantomeno equivalente, sulla carta, a quello filo-atlantico.
L’esigenza principale di ognuna di queste parti era quella di poter frenare il potere altrui, non di pensare alla governabilità. Questo marchio d’origine ce lo siamo portati per tutti i decenni della vita repubblicana. Anche quando le ragioni per quelle scelte era ormai venute meno.

La frase di Mortati vale “pari pari” anche oggi. E così si è creato il paradosso in cui siamo. La necessità, nella politica contemporanea, di decisioni, sempre più urgenti, sempre più frequenti, è stata risolta praticando un decisionismo estremo, completamente affidato al governo dei partiti e, talvolta, quando i partiti appaiono inadeguati, affidato ai governi del Presidente, nati per la necessità di evitare la paralisi. Il problema italiano ormai non sono gli strumenti per decidere. Guardando, per esempio, alla micidiale combinazione tra decretazione d’urgenza, maxiemendamenti, questione di fiducia e monocameralismo di fatto, l’Italia è forse una delle democrazie in cui si decide di più e con strumenti maggiormente potenti in mano al governo. Mentre la Costituzione, inapplicabile e inapplicata nel suo spirito originario, è stata interpretata evolutivamente fino all’estremo limite delle sue possibilità, e talvolta anche oltre.

Il problema in Italia non è prendere decisioni, ma la qualità di quelle decisioni e soprattutto la legittimazione politica di chi le prende. Nella qualità il nostro è un decisionismo segnato dalla instabilità dei governi, dai capricci della maggioranze. È un decisionismo precario, una sommatoria di decisioni congiunturali, occasionali, perché chi le prende sa che non può contare su un orizzonte di durata. Ed è un decisionismo compromissorio, perché condizionato dalla disomogeneità dei governi di coalizione e dal potere di ricatto dei singoli partiti che hanno sempre a disposizione la latente minaccia di esercitare il potere di disfare. Scordiamoci le riforme organiche. Un’assoluta rarità. Inoltre, è un decisionismo poco legittimato politicamente. Le elezioni non servono a decidere un indirizzo politico. I cittadini non scelgono chi disporrà di quel potenziale “decisionista”. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, il dibattito sul rinnovamento della politica e delle istituzioni aveva così sintetizzato la direzione del cambiamento: dalla Repubblica dei partiti al “cittadino come arbitro”, secondo la felice espressione di Roberto Ruffilli (intellettuale democristiano ucciso dalle Brigate Rosse).

Si pensava, cioè, che fosse venuto il momento di sciogliere il nodo che i costituenti non avevano potuto sciogliere. Quello di realizzare una democrazia adulta, in cui sono i cittadini a decidere maggioranze e governi assegnando responsabilità e scegliendo proposte programmatiche. Non limitarsi a distribuire le carte del “gioco dei partiti”.
Ecco. Ricominciare a discutere di riforme significa porre nuovamente al centro questo dilemma: repubblica dei partiti o repubblica dei cittadini come arbitri, che decidono e puniscono? Se si rimane sulla prima ipotesi, non c’è praticamente nulla da cambiare. Il decisionismo precario continuerà così, con scossoni e aggiustamenti, ma sarà ineluttabile. E conserverà la “qualità” che ha: decisioni erratiche, compulsive, schizofreniche, permeabili alle corporazioni di ogni genere e spesso inconcludenti.
Se invece si vuole spostare il baricentro, allora bisogna fare le riforme e passare lo scettro ai cittadini. Si dovrà consentire loro di scegliere e di chiamare a rispondere, garantendo la stabilità e un tempo congruo per governare.

L’elezione diretta del capo dello Stato o, secondo alcuni, del capo del Governo, può essere una soluzione. Purché si costruisca per superare il decisionismo precario, non per combattere la possibilità di decidere dei governi e delle loro maggioranze. In questo senso il modello americano non aiuterebbe. Innanzitutto perché è fondamentalmente figlio del federalismo, che da noi non esiste. E poi perché non è stato costruito per rafforzare il potere di decisione, ma semmai per frenarlo. Tant’è che l’ineluttabile incremento dei poteri del Presidente è avvenuto “oltre” la lettera della Costituzione, in forza di aggiustamenti che non si possono esportare perché sono legati alla specifica storia americana. Il nostro problema, invece non è frenare la decisione, ma quello di assicurare decisioni migliori, in termini di qualità e di legittimazione. Il semi-presidenzialismo francese andrebbe in quella direzione. Perché, sessant’anni fa, è stato pensato per risolvere problemi molto simili a quelli che l’Italia ha ancora oggi.

L’elezione diretta assicura stabilità e responsabilità e il Parlamento non è, come si pensa, un barboncino del Presidente. Non lo è nei periodi ordinari e, a maggior ragione, non lo è nei periodi di coabitazione. Nei periodi ordinari è sicuramente più forte di quello italiano. Sembra un paradosso ma è così. Il nostro decisionismo non ha eguali quanto alla mortificazione del Parlamento. A meno di non ritenere che la forza del Parlamento, o meglio dei partiti, stia solo nel potere di disfare i governi. In quello sicuramente siamo i campioni del mondo. Ma un Parlamento non ha ragion d’essere se l’alternativa, di fatto, é tra sfasciare i governi o sottomettersi senza toccare palla.