Come al primo turno, Emmanuel Macron è stato rieletto con una maggioranza più ampia di quella prevista dai sondaggi sulle intenzioni di voto. Marine Le Pen ha perso con un seguito molto più consistente che nel 2017, ma entrambi i candidati hanno ottenuto i rispettivi risultati, 58,5% e 41,5%, grazie alle seconde o anche alle terze preferenze di quella parte di elettori, il 49%, che al primo turno non aveva votato né per l’una né per l’altro (almeno quelli di loro che si sono recati alle urne in occasione del ballottaggio).

Questa dimensione del voto deve essere tenuta presente innanzitutto da Macron, il quale non a caso nel suo breve discorso di domenica sera ha mostrato di aver capito che deve rivolgersi nella sua azione di indirizzo politico anche a questi elettori che hanno votato per lui solamente per porre un ostacolo alla vittoria di Marine Le Pen. Da questo punto di vista, ci sembra importante sottolineare che la vittoria di Macron è dovuta in parte ad una scelta degli elettori a favore di quella che il presidente rieletto ha chiamato la sovranità europea e quindi ad un rifiuto del nazionalismo, che invece – e in versioni diverse – Le Pen e Mélenchon hanno difeso durante la campagna elettorale. Bisogna riconoscere che anche molto grazie a Macron gli elettori francesi hanno rovesciato il 24 aprile la scelta fatta 17 anni fa a proposito del referendum sul trattato costituzionale dell’Unione europea. La soddisfazione delle cancellerie europee è il segno più evidente di questa svolta.

Archiviata la campagna per le presidenziali, il governo della Francia dipenderà in larga misura dai risultati delle elezioni legislative di giugno, che i partiti hanno cominciato a preparare già dalla sera di domenica. Dagli esiti di queste ultime si capirà se Macron potrà governare un paese – che pure si è mostrato diviso in tre parti politiche ostili – realizzando le riforme necessarie o se dovrà semplicemente sopravvivere all’Eliseo senza poter governare, ridotto ad un re elettivo che regna ma non governa – come il sovrano della Monarchie de Juillet. La Francia, si dice a ragione, è divisa, non solo fra tre parti politiche, ma nella struttura stessa della società. Questo accade però in tutte le democrazie, dove si scontrano in America Democratici e Repubblicani e nel Regno Unito Tories e Labour. La divisione nella società viene dalla frattura che esiste, come in molte altre democrazie liberali, fra il mondo rurale e le città, fra i cittadini a reddito basso e quelli a reddito medio e alto, fra le persone con limitata scolarizzazione e quelle con titoli di studio superiore.

Questa opposizione è aggravata e resa più feroce in Francia dal fatto che il sistema elettorale della Assemblea nazionale tende ad escludere i rappresentanti dei gruppi sociali più deboli, che si sono in buona parte radicalizzati e temono, con qualche buona ragione, gli effetti della mondializzazione sul loro lavoro, sui loro redditi e sulle loro condizioni di vita in generale. L’elezione a doppio turno del presidente della repubblica, voluta da De Gaulle nel 1962, nonostante contraddicesse il mandato che era stato dato al suo esecutivo nel 1958 di mantenere la forma parlamentare del governo, era stata approvata da una larga maggioranza di cittadini (62,25%) ed è ormai largamente accettata. Ma il meccanismo elettorale dell’Assemblea è particolarmente distorsivo. Il partito di Le Pen alle elezioni legislative del 2017 aveva ottenuto 1l 13,2% dei voti validi e solo 8 deputati, mentre il partito della maggioranza presidenziale con il 32,3% ne aveva vinti 351 su 577 (consideriamo il primo turno dove gli elettori esprimono le loro prime preferenze – al secondo turno delle legislative il tasso di partecipazione è stato sempre molto più basso, dall’introduzione del quinquennio e dalla coincidenza delle elezioni presidenziali con quelle legislative).

Tradizionalmente l’opposizione in seno al Parlamento francese è debole e si esprime invece nelle piazze, talvolta in forme violente. Nel primo quinquennio della presidenza Macron, questo sentimento – e questa consapevolezza – di sottorappresentazione ha fatto crescere ulteriormente i partiti estremi che potrebbero questa volta provare a strappare molti più seggi in parlamento, soprattutto a causa del declino della destra post gollista e della sinistra socialista ed ecologista. Ma in realtà non è facile che questo avvenga, perché dovrebbe riprodursi ciò che è accaduto al primo turno delle presidenziali: il “voto utile”, che però questa volta implicherebbe la volontà di tutti i partiti di sinistra, da un lato, e di destra, dall’altro, di sostenere al primo turno il candidato di Le Pen o di Mélenchon, per provare a battere al secondo turno in tutti i collegi uninominali il candidato della maggioranza presidenziale. Il che non è affatto certo. L’effetto di trascinamento, che si è visto sistematicamente nelle precedenti elezioni a partire dal 2000, potrebbe invece dare a Macron, come la volta scorsa, una maggioranza assoluta.

In entrambi i casi governare la Francia sarà una impresa molto difficile. Nel primo caso, perché la legislazione proposta dal presidente sarebbe bloccata dal parlamento e nel secondo perché potrebbe essere ostacolata dalla piazza. E la sola soluzione per il presidente sarebbe di adottare politiche che porterebbero ad una esplosione del debito pubblico e/o a misure incompatibili con i vincoli imposti dalla Unione Europea e comunque osteggiate da molti che hanno scelto Macron proprio per opporsi a politiche populiste di tal genere. Non avendo la possibilità di essere eletto per un terzo mandato, Macron potrebbe provare a imporre politiche impopolari, se avesse la maggioranza nella Assemblea, ma lo scontro con la popolazione non potrebbe essere escluso. In definitiva, quello che soprattutto caratterizza oggi la particolare frattura sociale e politica in Francia è lo scollamento fra cittadinanza e rappresentanza. Gli osservatori e gli attori politici a Parigi, incluso Macron, pensano che introdurre una parte di proporzionale nella legge elettorale della Assemblea possa essere il solo modo per provare a spostare il conflitto sociale dalla piazza al Parlamento – che è poi una delle funzioni dei sistemi parlamentari e una delle ragioni per cui fu introdotto il suffragio universale maschile.

In Italia abbiamo visto come portare gli estremismi in Parlamento può servire in una certa misura per “addomesticarli”. Che questo possa accadere o meno in Francia ce lo diranno i mesi e gli anni che verranno. Resta il fatto che in ogni sistema democratico ci vuole una maggioranza parlamentare inclusiva per governare un paese. Non c’è bisogno del sostegno della maggioranza assoluta dei cittadini, ma se la parte della cittadinanza esclusa dalla rappresentanza è troppo ampia o se la cultura del compromesso è troppo debole e i partiti sono fazioni, come scriveva James Madison, la repubblica, cioè il governo rappresentativo, non è più capace di evitare la stasis, il conflitto permanente e il declino del paese.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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