Il mondo ci appare ogni giorno di più in preda all’anarchia. Assistiamo con angoscia alla tragedia innescata dall’aggressione criminale di Hamas ad Israele. Soltanto qualche settimana fa nel Nagorno Karabach si è consumato l’ennesimo esodo del popolo armeno. Da più di 600 giorni in Ucraina si trascina la guerra. Nel Sahel si succedono colpi di Stato segnati da umori antioccidentali che testimoniano di un passato coloniale mai veramente risolto. Nei Balcani riemergono pulsioni nazionalistiche e etnocentriche mai del tutto sepolte. Sia la guerra Ucraina e ancor di più la crisi mediorientale hanno accentuato la divaricazione di giudizio e di azione tra il nord e il sud e l’ovest e l’est del mondo, di cui sono plastica rappresentazione i voti sulle risoluzioni dell’Onu.

Cresce nel mondo una volontà di protagonismo in competizione con il campo occidentale, ben testimoniato dalla ripresa di iniziativa dei Brics e dalla loro decisione di allargarsi ad altri Paesi. E cresce in molte nazioni – anche nel cuore dell’Europa – la tentazione autocratica. Uno scenario in cui emerge la fragilità delle istituzioni sovranazionali, a partire dalle Nazioni Unite, paralizzata dalle contrapposizioni tra membri del Consiglio di Sicurezza.

Una palese fragilità che manifesta anche l’Unione europea troppo spesso costretta alla afasia per le divisioni tra i suoi membri, come si è purtroppo visto nel voto sulle risoluzioni Onu sul Medio Oriente. Non è dunque azzardato chiedersi se uno scenario così “anarchico” non segnali l’esaurimento di un’epoca e degli assetti che hanno caratterizzato l’intera seconda parte del ‘900. E chiedersi se sia realistico governare il nuovo secolo con gli assetti del secolo scorso o non sia invece urgente pensare un nuovo ordine mondiale e una nuova architettura internazionale.

È un nodo che interroga anche l’Europa. Qui nel nostro continente si è realizzata la più avanzata esperienza di integrazione sovranazionale, con benefici di cui hanno goduto tutti i Paesi europei e il loro cittadini. Ma avvertiamo che i livelli di integrazione raggiunti non sono sufficienti di fronte alle sfide del mondo globale. Per almeno sessant’anni abbiamo potuto costruire integrazione in un mondo che non conosceva ancora le dinamiche globali. E beneficiando di condizioni favorevoli: gli Stati Uniti ci garantivano la sicurezza, la Russia l’energia, la Cina e gli emergenti i loro mercati.

È un mondo che sta alle nostre spalle. E oggi l’Europa è a un bivio: o si accontenta di ciò che ha realizzato fin qui, che non è poco, ma accettando che siano altri a riorganizzare il mondo. Oppure l’Europa mette in campo un ambizioso salto in avanti, come fece con l’euro e l’allargamento all’indomani della caduta del muro di Berlino. O come ha fatto di fronte a Covid 19 con Next generation EU, gli eurobond e il debito comune.

Un salto di qualità che chiama soprattutto la responsabilità dei Paesi più grandi, tra cui l’Italia, di guidare un coraggioso processo di riforma nella direzione di più intensi livelli di integrazione che consentano all’Unione europea di parlare con una sola voce e agire con una sola mano.

Una sfida che avrà tra pochi mesi un banco di prova nelle elezioni per il Parlamento europeo dove i cittadini europei saranno chiamati a votare tra due proposte nettamente alternative: tra chi propone un’Europa più coesa, più integrata, più unita e chi ne propone la riduzione a un involucro formale di ripiegamenti nazionalisti.

Piero Fassino

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