Forse l’ultimo atto non è stato davvero l’ultimo. Quel corpo orribilmente scempiato che penzola sotto la tettoia di una pompa di benzina in un triste piazzale milanese chissà che non abbia macchiato l’universo della Storia con i suoi miasmi cadaverici. Lascia sgomenti questa supposizione mostruosa ma non irrealistica che Antonio Scurati lascia cadere con tutta la grevità della questione alla fine dell’ultimo volume della monumentale saga (“M. La fine e il principio“, Bompiani), appunto l’ultimo atto di una delle vicende storiche più incredibili di sempre: per come è nata, come è cresciuta, come è finita.

La storia senza lieto fine di Segre

“Se” è finita: questo il dubbio. Che anima le ultime frasi del libro: «La storia di Liliana Segre però non conosce un lieto fine. A più di settant’anni dalla sconfitta del nazifascismo, Liliana è ripetutamente oltraggiata dai neofascisti. Riceve ogni giorno duecento messaggi di odio antisemita. Nel 2019 si è addirittura costretti ad assegnarle una scorta per proteggerla da possibili attentati alla sua persona. A novanta anni di età, nel terzo decennio del nuovo millennio, nell’Italia odierna una donna sopravvissuta ad Auschwitz è costretta a vivere in compagnia di due carabinieri addetti alla sua salvaguardia. Ma non è un caso. La ragione c’è. C’è e ci chiama in causa. Se la storia della piccola Liliana non conosce il lieto fine che molti di noi – molti ma non tutti – implorano per lei, il motivo è semplice e al tempo stesso confuso, tormentoso sebbene probabilmente insensato: la sua storia – la nostra storia – non è finita».

È un libro drammatico, come si vede. Va detto subito che al pari dei precedenti tomi anche questo, più breve, emoziona, indigna, commuove con una potenza letteraria che avvicina Scurati alla grande prosa ottocentesca eppure formalmente modernissima. E dunque ecco la Storia che diventa nemmeno farsa – c’è troppa tragedia tutt’attorno – ma un teatro dell’assurdo nel quale le vicende di Benito Mussolini si attorcigliano attorno alle sue illusioni perdute, le sue fanfaronate tardive, le sue realtà parallele, i suoi inganni, la sua autoreferenzialità anche nel momento più acuto della tragedia personale. È il periodo finale, dal confino a Ponza alla morte. L’Uomo della Provvidenza, dopo l’arresto del luglio 1943, è un essere piccolo piccolo. «Per quanto mi riguarda io mi considero un uomo per tre quarti defunto. Il resto è un mucchio di ossa e muscoli in fase di deperimento organico da dieci mesi a questa parte. Del passato non una parola. Anch’esso è morto. Non rimpiango niente. Non desidero niente», scrive Mussolini alla sorella Edvige il 31 agosto ’43. Non è vero, come al solito. Mente, come sempre ha fatto. Vuole ancora vita, e un po’ ne avrà – meno di due anni – tragica e ridicola insieme.

Benito pazzo come mosca in un bicchiere

Ecco Salò, un mondo di marionette, di anime morte – Pasolini ne intuì il dato catastrofico e grottesco – con lui, Benito, in fondo solo un sessantenne ma giallastro di colore, smagrito, pazzo come deve esserlo la mosca ingabbiata in un bicchiere. Attorno a lui è peggio ancora. Figure di esaltati, assassini, cialtroni. E Claretta Petacci ebbra di lui, figura che suscita pena. Eccolo, l’Uomo della Provvidenza, nella inutilmente magnifica villa Feltrinelli adagiata sul lago di Garda, è un momento tra i tanti del terribile 1944, quando uomini e donne europei morivano come formiche calpestate da migliaia di piedi, ritratto mentre «si ostina a discettare della “socializzazione”, la grande riforma che dovrebbe innovare lo Stato e rifondarlo sui lavoratori segnando una terza via tra comunismo e capitalismo, ma sa bene che resterà lettera morta; ogni tanto verga ancora qualche messaggio di protesta ma non attende risposta. Trascorre il suo tempo leggendo Platone. Tutte le mattine, nel suo ufficio, legge un capitolo degli insegnamenti del grande filosofo sullo Stato. Tiene una copia della Repubblica in bella vista sulla scrivania. Legge, chiosa, annota Platone e traduce Carducci in tedesco. Ne declama i versi a gran voce aggirandosi nello studio vasto, vuoto e spoglio».

Gioca a tennis, il Duce. Eraldo Monzeglio, il calciatore campione del mondo, lo fa vincere, come si fa con i bambini. In quel frangente l’Italia è precipitata, per colpa sua, nella guerra civile. Gli Alleati scaraventano tonnellate di bombe sul Nord dove tedeschi e fascisti, come bestie ferite, mollano gli ultimi e più velenosi colpi di coda. Mentre Mussolini legge Platone sulle rive del lago di Garda, i nazisti, per dirne solo una, sul monte Tancia, nel reatino, «dopo aver incendiato le case e freddato pure gli animali domestici, hanno fucilato diciotto civili, tra cui anche donne e bambini, lanciati in aria e usati come tirassegno. Si chiamavano Bonacasata Aldo, di anni sei, Bonacasata Angelo, di anni nove, Bonacasata Arnesina, di anni due, Capparella Ersilio, di anni quattro, Valentini Dina, di anni undici, Valentini Domenico, di anni sei, Valentini Nello, di anni tre». Sono i giorni in cui a Milano «la piccola Liliana non osa interrogare suo padre, non si concede nemmeno di interrogarlo con lo sguardo perché vede quei suoi occhi sgomenti, perché ne intuisce lo smarrimento. Non gli chiederà la ragione di quello che sta accadendo perché intuisce che non sarebbe in grado di fornirle ragione alcuna».

La fuga del Grande Vigliacco

E Milano è massacrata dal cielo dagli attacchi degli inglesi e sanguinante per le rappresaglie naziste: ed è giusto, doveroso, questo grande spazio dato alla tragedia della Milano tra il ’43 e il ’45, la memoria antinazista del neorealismo essendo stata sempre più concentrata su Roma, soprattutto per via del cinema di Rossellini. La Milano dove tutto nacque e tutto finì, la Milano dove sorse il Duce è la stessa Milano dove, con tanti saluti a tutti, Mussolini diventa il Grande Vigliacco e cerca di andare via, ma dove? Da tempo ha capito di essere solo uno spettro ma fino all’ultimo guizza in lui una scintilla tra il furbo e lo stolido, fino alla inutile corsa lungo un altro lago, quello di Como, e chissà se c’è un significato un po’ lugubre in questo restare intrappolato tra due laghi, prima Garda poi Como.

Fatto sta che lo trovano, il Cavalier Benito Mussolini, il Duce, il Fondatore dell’Impero, nel modo più tragicomico che uno sceneggiatore di Hollywood non avrebbe mai saputo inventare, travestito, il grande uomo, rinserrato in un camion: «Il pesante pastrano di un sergente della Luftwaffe scelto per il vecchio dittatore in disgrazia è di due taglie troppo grande. Benito deve ricorrere all’aiuto di Clara per indossarlo su quel suo corpo smagrito e molliccio che tante volte in passato la ragazza aveva dichiarato di adorare. L’elmetto, anch’esso troppo grande, viene indossato alla rovescia. Benito Mussolini si ribella soltanto quando gli porgono un paio di occhiali da sole da inforcare, come in una barzelletta, per travisare, oltre al corpo, anche il volto. In un accesso di collera, getta a terra l’elmetto. Con pazienza il tenente Birzer lo raccoglie e glielo calza nuovamente sul capo. Mussolini indossa anche gli occhiali da sole». Lo trovano i partigiani. Lo riconosce Giuseppe Negri, detto Peppino, nome di battaglia “Zocolin”. Scende dal camion, avverte il partigiano “Bill”, questi gli urla “Cavaliere Benito Mussolini!”, e lo arresta “in nome del popolo italiano”. Benito non reagisce. Passa le ultime ore con Claretta, l’amante finale. Chi lo giustizia, lui e la Petacci, non è chiaro. Gli scaricano un bel po’ di pallottole. Poi lo portano a Milano, è lo scempio di piazzale Loreto. Il corpo del Duce diventa una poltiglia. Il fascismo è quella poltiglia.

Scurati chiude così: «Alla fine, come in principio, saranno soltanto i morti. In principio come alla fine sarà ancora soltanto il corpo. Il corpo macellato e ricomposto, morto e resuscitato, laido e glorioso. Il corpo del vostro Duce. Sì, il mio pubblico ci sarà ancora. E ancora. E ancora. Il cadavere tornerà, io tornerò perché i morti non pesano soltanto, i morti sopravvivono. Sono cose più antiche del mondo. E io queste cose le so, le so perché è inutile, non c’è niente da fare, io sono come le bestie: sento il tempo che viene». Vengono i brividi. Forse, in un certo senso, non è finita.